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Violenza e tenerezza in Lobo Antunes

Violenza e tenerezza in Lobo Antunes

Letteratura Romanzo tra i più "intimisti" dell'autore portoghese , "L'arcipelago dell'insonnia" presenta personaggi calati in loro stessi negli interni di una casa assai disorientante

Pubblicato più di 11 anni faEdizione del 5 maggio 2013

Ci sono luoghi che ci ostiniamo a chiamare «casa», solo perché non sappiamo trovare loro altro nome. Luoghi di una estraneità così inquietante da poterla sopportare solo se continuamente giocata tra le sponde dell’incubo e del desiderio. In uno di questi luoghi, tra desideri che avvicinano il tempo e incubi che inesorabilmente lo allontanano, si fanno largo ricordi, molto simili a fantasmi, che quel tempo lo «bucano», trascinando tutto con sé.

Attorno a quel buco, si affacciano i fantasmi che per almeno tre generazioni attraversano la vita di una famiglia portoghese: un patriarca che ha fatto fortuna, con la propria durezza e la fatica altrui, servi e domestiche, una tenuta di campagna, due fratelli di sangue, uno legittimo e uno no, che si contendono lo sguardo del padre, abusi e violenze sui contadini, comunisti in rivolta e comunisti ricondotti a più miti consigli, gente che non ricorda e gente che ricorda fin troppo e, da ultimo, un ragazzino autistico che forse è il solo a trarre un senso dal disordine che domina le cose. Anche le loro vicende si aggirano per la casa come fantasmi – o forse sono tutt’uno con essi – attratte da un centro scuro o meglio da qualcosa che ha l’umore e l’odore della colpa, ma forse con la colpa non c’entra.

Il centro, la casa, disorienta più che orientare: «Da dove mi arriverà l’impressione che alla casa, sebbene uguale, manchi quasi tutto? I vani sono gli stessi con gli stessi mobili e gli stessi quadri, eppure non era così, non era questo, vecchie fotografie al posto di mia madre, di mio padre, delle domestiche in cucina e della tosse di mio nonno che comandava il mondo, non la sua presenza, non gli ordini, la tosse, un fazzoletto gli usciva dalla tasca e gli disordinava i baffi». È la tosse – un piccolo choc – a spezzare il ritmo e a invertire la linea degli eventi. Si apre così L’arcipelago dell’insonnia, pubblicato nel 2008 e ora tradotto da Vittoria Martinetto per Feltrinelli, («I narratori», pp. 284, e 18) del portoghese Antonio Lobo Antunes, che sembra mettere a frutto le tante e spesso fuorvianti buone intenzioni di cui è lastricato l’inferno di ogni autore, ma in particolare di questo autore, psichiatra in pensione, «primo paziente di me stesso» come ama scherzare, che in Italia si è fatto conoscere nel 1996, con la traduzione di un libro edito diciassette anni prima, In culo al mondo (Einaudi, 1996; ora passato al catalogo Feltrinelli).
La scrittura, osservava António Lobo Antunes, è «capacità di incorporare la violenza nella tenerezza». Una volta tanto L’arcipelago dell’insonnia non è un libro che smentisce le facili profezie di un autore in vena di confessioni non richieste, rivelandosi, al contrario, proprio un romanzo di grande tenerezza e di grandi violenze. Non sono però le violenze coloniali e postcoloniali che hanno segnato altri suoi romanzi, dal citato In culo al mondo fino agli ultimi, non ancora tradotti, Comissão das Lágrimas, del 2011, o A criar Não É Meia Noite Quem Quer del 2012.

Come sempre accade nell’opera dello scrittore portoghese, è la dimensione della memoria e la sua disseminazione afasica a costituire l’asse portante. La scrittura trasferisce atti e incontri del passato in un presente che definiamo tale solo se ne percepiamo la sfasatura con un altrove temporale che nel romanzo è però sovvertito. Ne sia prova la scelta, continuamente contraddetta, dei tempi verbali e dalla presenza della casa nel romanzo (e nei romanzi: c’è sempre una casa, infatti, nei suoi libri), una casa che «va in rovina» e a poco a poco diventa lo spazio tangibile di una simultaneità che la scrittura asseconda e ricalca, nel farsi e disfarsi dei suo processi mnestici. È proprio questo tentativo di riflettere sui processi di memoria – senza mai riuscire a accordarsi in pieno – a rendere talvolta disarmante il patchwork di António Lobo Antunes. Su questo disarmo, d’altronde, l’autore gioca d’anticipo e gioca pesante e in prima persona.
L’elemento vissuto è importante, non solo per un autobiografismo più o meno di facciata, ma proprio perché gli consente di calarsi interamente in questo processo mnestico. Un procedimento complesso, saturo di rimandi interni (pochi quelli esterni, perlopiù impliciti, come quello che dà il titolo all’Arcipelago dell’insonnia, che rimanda al poeta Blaise Cendrars), passibile di apparire ostico o difficile a quel lettore che non accettasse di calarvisi in pieno.

Il 25 ottobre del 2012, concludendo la sua collaborazione col settimanale Visão, sul quale teneva una rubrica fissa, Lobo Antunes annunciò di considerare conclusa la propria opera. «Ho scritto ciò che volevo scrivere, ora tocca al lettore». Salvo qualche post-scriptum, sempre possibile di questi tempi, il lavoro era da considerarsi terminato: basta interviste, basta apparizioni televisive, basta romanzi. Un sano silenzio, insomma. Non prima, però, di aver regolato qualche conto con chi dichiara di non capirlo. Ciò che non capiscono, osserva l’autore, non è questo o quel romanzo, ma «la complessità della vita, e questo non è un mio problema. John von Neumann, padre della teoria dei giochi, lo spiegò chiaramente, distinguendo tra variabili vive (che l’individuo tiene in debito conto, nell’eventuale calcolo di una strategia) e variabili morte (di cui l’individuo non si serve mai).

Le variabili morte sono quasi inutili. È sufficiente prestare orecchio attivo alle cose e a noi per comprendere. La paura di sapere ci terrorizza. L’idea di prendere coscienza ci fa venire la pelle d’oca. Rifiutiamo l’idea di vivere dentro di noi. Leggere storie rende meno violenta la parte di infanzia che è in noi. Ma questo non serve a niente. Serve solo a tranquillizzarci, a allontanarci da ciò che ci inquieta e ci spaventa. Io non mi sono messo a scrivere per portare la tranquillità a qualcuno. Non vedo alcun interesse a divertire o a agitare nell’aria animali di pelouche. Ho scritto libri per adulti che tengono gli occhi aperti».

Tenere gli occhi aperti o, meglio, sbarrati è una caratteristica delle figure che popolano l’universo romanzesco di Lobo Antunes. Troppa lucidità conduce al delirio, come nell’insonnia prolungata. Ma troppa lucidità approssima anche a quel «negativo» che, altrimenti, ci scapperebbe di mano per troppo delirio o troppa ragione. Quel negativo che è da sempre al centro della sua riflessione e ha trovato nella «casa» e nella sua decadenza una immagine efficace e un espace fictionnel dove lo scrittore può giocare e giocarsi tutte le proprie figure, con tutte le ambivalenze messe da loro e con loro in movimento. Ecco, allora, che proprio nei momenti di massima tensione, che sono momenti di lucidità e al tempo stesso sono delirio, queste figure hanno accesso a qualcosa che somiglia a un sentimento o a una nostalgia.
Accade anche nell’Arcipelago dell’insonnia – libro tra i più «intimisti» dell’autore, in cui personaggi sono interamente calati in se stessi e nella storia che attraversa questo sé – quando tra una morte certa e una promessa di matrimonio, davanti agli occhi aperti del lettore si presente improvvisamente questa sequenza: «non sei cambiata, non sono cambiato e da adulto arrivo in paese noncurante delle imposte, mi presento ai tuoi genitori e ci sposiamo, c’è spazio per tutte le tue cose qui, per le bambole e per il carillon con la manovella che va girata con cautela perché a dar troppa corda smette di funzionare, non appena si sente uno scatto bisogna fermarsi e dopo basta ascoltare, prima veloce e poi sempre più lento, interrompendosi a metà del ritornello e noi una malinconia tranquilla, ho sempre immaginato che si morisse in questo modo, un suono flebile che si prolunga per qualche secondo prima di cessare e cessare significa lo sguardo altrove dato che quello che rimane non sono occhi che si spengono chiedendo».

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