La crescita esponenziale di questi ultimi mesi con attacchi contro basi militari e attentati contro civili, pone l’area del Sahel come una delle più pericolose e difficili, soprattutto per quanto riguarda l’ascesa dei gruppi jihadisti. Il manifesto ne ha parlato con Ibrahim Maiga, capo ricercatore dell’Istituto di studi sulla sicurezza (Iss) di Bamako, uno dei principali organismi di ricerca e monitoraggio a livello mondiale.

Perché in questi anni il Sahel è diventato un terreno favorevole all’ideologia jihadista a partire dal Mali?

Il processo di radicalizzazione e di espansione dell’ideologia jihadista nasce dalla fine degli anni ’90 con la fuga dall’Algeria di numerosi miliziani e ideologi del Gia (Gruppo islamico armato) e ha avuto, quindi, uno sviluppo esterno. Successivamente si sono aggiunti fattori interni legati prevalentemente all’espansione dei gruppi jihadisti in zone periferiche e di confine dove i miliziani si sono sostituiti allo stato assente in termini di protezione e controllo. Per arrivare poi dal 2012 con l’ascesa di numerosi leader non più stranieri ma maliani, burkinabé o nigerini.

Qual è stata poi la successiva evoluzione in questi anni, per arrivare ai recenti attentati e attacchi alle basi militari nel Sahel?

Nella loro evoluzione i due principali raggruppamenti nel Sahel (Jnim legato ad al Qaeda e Isgs legato allo Stato islamico, ndr) hanno reclutato numerosi miliziani locali puntando soprattutto sul fatto di fornire protezione e riparo tra gruppi e comunità differenti. Anche l’aspetto economico è rilevante riguardo al fatto di assoldare miliziani pagandoli, in aree poverissime e senza alcuna prospettiva. La strategia, soprattutto negli attacchi di quest’ultimo periodo, tra 2019 e 2020, è quella di alternare azioni di protezione ad attacchi brutali contro i civili stessi, per rivendicare il controllo del territorio.

Qual è l’obiettivo reale di questi due raggruppamenti, esistono delle differenze ideologiche o di approccio nel territorio?

L’approccio resta lo stesso: protezione alternata a violenza. Anche se le due fazioni sono in lotta per il dominio nell’area, entrambe sfruttano l’assenza dello stato e la mancanza di sicurezza, oltre a fomentare le divisioni inter-comunitarie (peul, tuareg, dongo, bambara) per imporsi nel territorio.

Cosa pensa del possibile negoziato con alcune formazioni jihadiste evocato recentemente dal presidente maliano Ibrahim Boubacar Keita?

È una possibilità, soprattutto dopo i fallimenti e le sconfitte militari passate e la disponibilità da parte dello Jnim di negoziare, a condizione di un totale ritiro delle truppe francesi dal Mali. Una disponibilità che punta, però, a mettere in crisi la collaborazione tra governo maliano e Parigi. L’organismo per cui lavoro aveva già formulato una raccomandazione sulla possibilità di dialogo, se non con la leadership massima con quella intermedia che, a volte, ha radici locali molto più forti. Semplicemente perché i nostri studi dimostrano che spesso ci si unisce a questi gruppi non per ideologia: lo fanno per frustrazione, a volte per spirito di vendetta, quindi se sostenute queste persone potrebbero fuoriuscire dai gruppi jihadisti. Il dialogo comunque dovrebbe andare di pari passo con un’azione forte per riportare lo stato, a livello di governance, in tutte queste aree.

Le soluzioni proposte al vertice di Pau nel gennaio 2020 e l’accordo di cooperazione tra la missione francese Barkhane e il G5 Sahel possono funzionare?

L’opzione militare al momento è stata totalmente inefficace e deve essere funzionale ad una soluzione politica e di sicurezza.Penso che alcune misure possano servire a contrastare l’ascesa jihadista nell’area, anche se questo tipo di lotta sarà lunga e dovrà prevedere inevitabilmente un miglioramento dei governi del Sahel in termini di governance, di sicurezza, di lotta alla corruzione e miglioramento delle condizioni di vita, soprattutto nelle aree rurali e di confine. Siamo di fronte a individui che si confondono con le popolazioni locali, che sanno sfruttare al meglio le lacune dello stato. Questa resilienza dei gruppi jihadisiti, infatti, solleva anche in modo più ampio la questione della governance, che viene spesso affrontata nel discorso politico, ma non sufficientemente o affatto a livello concreto nelle risposte da portare all’insicurezza nel Sahel.

Qual è il futuro del jihadismo nel Sahel e come contrastarlo efficacemente?

 

Ibrahim Maiga

 

A livello tattico-militare bisognerebbe aumentare il supporto economico internazionale per migliorare l’equipaggiamento delle forze armate del Sahel, mal equipaggiate in confronto alle formazioni jihadiste che invece sono organizzate, grazie anche all’arrivo di miliziani dalla Siria attraverso la Libia. A livello politico con un miglioramento di goverance. Il “successo” dei jihadisti sta nella loro capacità di insinuarsi nelle carenze dello stato. In alcuni casi con la coercizione, ma spesso lo fanno portando standard di governo e affidabilità, persuadendo le comunità dal basso in confronto all’assenza o alle violenze perpetrate dai governi centrali. Non abbandonare queste comunità è una responsabilità essenziale degli Stati della regione se si vuole vincere questa lotta. E infine a livello sociale, «non vinceremo la guerra senza l’aiuto del popolo» è quello che ripetiamo ai governi del Sahel. Questo significa non incorrere negli errori passati della corruzione e di coercizione indiscriminata da parte dei militari contro le popolazioni civili. I leader jihadisti sembrano, per il momento, essere sociologi e politici migliori dei rappresentanti dello stato. Non riuscire a trarre le conseguenze di questa osservazione significa mettere seriamente a rischio le possibilità dello stato di costruire localmente la propria legittimità.