«Bugie». «Fake news». «Io tengo duro». Con i soliti proclami che contraddistinguono ogni suo intervento il ministro Matteo Salvini si mostra sicuro del corretto comportamento della Guardia costiera libica, accusata da Open Arms di aver abbandonato in mare un bambino e due donne, una sola dell quali sopravvissuta. E promette di rendere nota la testimonianza di non meglio specificati «osservatori terzi» che smentirebbero le pesanti accuse della ong spagnola. Sperando che spieghino anche perché i militari libici si sarebbero allontanati portando via 158 migranti ma lasciandone in acqua tre che, se soccorsi, avrebbero potuto essere salvati.

La difesa della Guardia costiera di Tripoli è solo un altro passaggio della battaglia che il titolare del Viminale sta conducendo per il riconoscimento della Libia come Paese sicuro nel quale poter rispedire i migranti. In realtà da quando l’Italia ha fornito alla Libia alcune motovedette, inizialmente quattro, più di recente altre 12 mentre 14 sono state promesse, la Guardia costiera libica si è più volte contraddistinta per i metodi violenti con cui effettua i «soccorsi», arrivando spesso a minacciare con le armi le navi delle ong che intervengono nel Mediterraneo. Charles Heller e Lorenzo Pezzani, due ricercatori della londinese Forensic Oceanography, hanno ricostruito le fasi drammatiche di un intervento effettuato il 6 novembre 2017 durante il quale i militari libici hanno conteso i migranti ai volontari della ong Sea Watch.

Le immagini assemblate dei video girati in quell’occasione se da una parte dimostrano la scarsa preparazione dei militari, dall’altra tolgono ogni dubbio sul trattamento violento riservato ai migranti, costretti a salire a bordo della motovedetta e in seguito frustati con una corda per costringerli a rimanere seduti mentre in mare altri migranti affogavano senza che nessuno potesse intervenire. Fino al momento in cui la motovedetta ha acceso i motori e fatto rotta verso la Libia incurante di un uomo appeso a una fune che veniva trascinato via nonostante un elicottero italiano invitasse più volte l’equipaggio libico a fermarsi. Innumerevoli, poi, le denunce delle ong che hanno raccontato di essere state minacciate con le armi dai militari libici infastiditi dalla loro presenza. A rendere ancora più difficile considerare la Libia un paese sicuro per migranti c’è poi il fatto che Tripoli non ha mai firmato la convenzione di Ginevra e considera l’immigrazione un reato punibile con la detenzione. Si calcola che il governo controlli almeno 34 centri nei quali sarebbero richiusi in condizioni disumane tra i 6.000 e gli 8.000 migranti, donne e bambini compresi. Un paese nel quale i diritti umani sono vietati anche agli stessi libici, come denunciato ad aprile aprile da un rapporto dell’Onu in cui si parlava di di «orrori e torture» messe in atto nelle carceri. Dove, denunciava l’Alto commissariato per le Nazioni unite per i diritti umani, le persone sono detenute «in maniera arbitraria» sulla base «della loro appartenenza tribale o di legami familiari o di apparenti affiliazioni politiche».

Può bastare questo per immaginare come può essere la vita di un migrante prigioniero in un centro di detenzione libico. Riferendosi all’accordo siglato dall’ex ministro degli Interni marco Minniti con la Libia per fermare le partenze dei migranti, sempre l’Onu ha definito «disumana» la scelta dell’Italia di usare la Guardia costiera libica per chiudere la rotta del Mediterraneo centrale, e la decisione di riportare in Libia i migranti come «un oltraggio alla coscienza dell’umanità». «Quella che era una situazione già disperata, ora è diventata catastrofica», ha detto l’Alto commissario Onu per i diritti umani.