Due ragazze, due cugine, 14 e 15 anni. Mancavano da casa da due giorni e la polizia le ha ritrovate ieri mattina, impiccate ad un albero. Succede a Katra Shahadatganj, in Uttar Pradesh, stato dell’India settentrionale, tra le pieghe di quella società lontano dalla – presunta e sbandierata – nuova sensibilità dell’India urbana verso l’orrore degli stupri. Perché, nonostante il macabro maquillage del suicidio, il paese si ritrova di fronte all’ennesimo episodio di violenza sessuale di gruppo.

Le aggravanti sono molteplici, a partire dal mancato intervento tempestivo delle forze dell’ordine che, seppur avvertite dal padre di una delle ragazzine, non hanno aperto nessuna indagine fino a ieri, quando i corpi senza vita delle due adolescenti sono stati circondati dal resto degli abitanti del villaggio.

Un tragico sit-in di protesta, documentato dalle tv nazionali, con un segnale chiaro: finché non si trovano i responsabili, da qui non ce ne andiamo. L’intervento della polizia, dopo una trattativa con gli abitanti, ha permesso che i corpi venissero recuperati e affidati a tre medici legali che hanno confermato i sospetti: le ragazze sono state prima picchiate e violentate da 7 uomini, poi impiccate all’albero e lasciate morire.

Le autorità locali hanno immediatamente fermato tre uomini, di cui due poliziotti, sospettati di aver preso parte alla violenza, mentre le ricerche continuano per individuare gli altri quattro stupratori.

La ragazze facevano parte della comunità dalit, quegli «intoccabili» relegati ai margini della società ancora fortemente condizionata dalla suddivisione in caste: cittadini di serie b che spesso, agli occhi delle autorità, non meritano le tutele fornite, formalmente, dalla legge nazionale. Coi dalit si chiude un occhio.

L’India si risveglia bruscamente dalla frenesia post elettorale, con un nuovo governo insediatosi da una manciata di giorni che dovrà rompere il silenzio ufficiale col quale è stata accolta la notizia.

Ora, per il neo premier Narendra Modi, la sfida sarà mostrarsi risoluto, dare un segnale di rottura rispetto all’esecutivo precedente al quale era toccato gestire l’infamante stupro di Jyoti Pandey, la studentessa violentata da cinque uomini il 16 dicembre 2012: erano i tempi dello «stupro di Delhi», lo spartiacque che doveva segnare il punto di non ritorno della «tolleranza zero» contro gli stupratori, a suon di pene capitali per i reati sessuali che oggi – assieme alla sequela di violenze che sono continuate nel paese – mostrano tutta la propria inefficacia.

La violenza non è un problema di «law and order», ma affonda le radici in un mix letale di società patriarcale, discriminazione castale e corporativismo in seno agli organi di polizia: ai «confini dell’Impero», soprattutto, in mancanza di adeguati controlli le forze dell’ordine vengono percepite come dei piccoli signori della guerra. Gente con la quale è meglio non aver a che fare, portatori di guai.

Si attende ora l’intervento del nuovo uomo forte del subcontinente. Modi, reduce da una vittoria a valanga nelle elezioni appena concluse e sostanzialmente acclamato dalla folla, è chiamato a mostrare i muscoli in condizioni politiche estremamente favorevoli.

Durante la campagna elettorale il leader del Samajwadi Party Mualayam Singh Yadav, ex forza politica imprescindibile in Uttar Pradesh spazzata via dalla «Modi Wave», aveva dichiarato maldestramente che le leggi anti stupro così come sono non tutelerebbero abbastanza i diritti dei presunti stupratori, spingendosi fino ad augurarsi il beneficio del dubbio e del «perdono» in casi di violenza.

Oggi, con due adolescenti dalit violentate da un gruppo di poliziotti e civili, NaMo ha l’occasione di tracciare il solco, dimostrare al proprio elettorato l’efficienza del nuovo governo della destra hindu.