FIRENZE, MON AMOUR

Bill Viola. Rinascimento elettronico

Bill Viola ritorna a Firenze 40 anni dopo: ci aveva vissuto tra il 1974 e il 1975 realizzando in veste di operatore decine di video per Art/Tapes/22, uno dei primi atelier sorti in Italia in una fase ancora pionieristica della sperimentazione. In quel periodo, girando per la penisola l’artista americano si era nutrito di arte italiana, studiando i capolavori dal ’300 al ’600, fonte di ispirazione per lavori monocanale e installazioni, soprattutto a partire dal 1995, quando nel padiglione U.S.A. della Biennale di Venezia presentò The Greeting, esplicito omaggio alla Visitazione del Pontormo.

Oggi, in una delle sale di Palazzo Strozzi dove è allestita la mostra Bill Viola Rinascimento elettronico (a cura di Arturo Galansino e Kira Perov, fino al 23 luglio) quell’installazione viene riproposta insieme al dipinto. E tutto il percorso al piano nobile del museo fiorentino è costruito su un continuo confronto tra le immagini in movimento di Viola, dipinti su tavola e affreschi staccati di autori come Uccello, Masolino, Cranach. Un accostamento tanto ovvio quanto suggestivo, che decreta già sulla carta il successo di una mostra che solo Firenze avrebbe potuto tributargli.

Negli spazi della Strozzina, l’esposizione continua con altre installazioni più piccole, create dai primi anni ’70 fino ad oggi, quasi tutte su monitor, alcune monocanale come The Reflecting Pool, altre perfino interattive come Il vapore (1975), inclusa nella collezione del Maxxi. Ma Rinascimento elettronico è anche una mostra diffusa: altre visioni di Viola, spesso di grandi dimensioni, si possono ammirare al Museo dell’opera del Duomo, al Museo di Santa Maria Novella e agli Uffizi, messe in relazione con le opere di Michelangelo o Donatello, sempre con l’intento di creare un dialogo tra il dispositivo tecnologico e l’immaginario sacro, tra la materia pitto-scultorea e l’immaterialità audiovisiva.

Lo spettatore ha la sensazione di trovarsi di fronte a un racconto frammentato che procede per “quadri”, rivivendo immersivamente le opere antiche: esemplare il progetto di illuminazione che consente di fruire delle immagini fisse (bisognose di luce) e di quelle in movimento (che necessitano del buio) senza fratture e perdita di definizione, secondo un flusso narrativo che produce scambi e interferenze. «I cicli di affreschi», come ricorda Viola in una conversazione con John Hanardt tradotta in catalogo, «si leggono come una sorta di storyboard su larga scala. Li considero gli antesignani dei film». La messa in scena del moderno con l’antico è pratica usuale, ma i tableaux vivants di Viola parlano lo stesso linguaggio delle rappresentazioni pittoriche. Il video si trasforma in quadro, il quadro idealmente in video, producendo una narrazione emozionale, non con un semplice espediente tecnico (il ralenti esasperato che congela l’immagine in movimento), bensì assorbendo l’osservatore in una dimensione spirituale. «Credo che la grande tradizione nascosta della pittura sia il tempo», afferma Viola, «un concetto che gli storici dell’arte si ostinano a non capire: il tempo e lo sviluppo della consapevolezza. Il movimento della coscienza è il vero soggetto di molti dipinti dei maestri del passato».

L’interesse drammaturgico che Viola nutre per gli elementi naturali si esplicita non solo nella classica Crossing (1996), proiezione sui due lati di uno stesso schermo sospeso che apre la mostra, con il medesimo uomo investito simultaneamente da un getto d’acqua e dal suo opposto (le fiamme), ma anche nel più recente polittico con cui si conclude il percorso di Palazzo Strozzi, Martyrs Series (2014), dove quattro diversi performer incarnano moderni martiri torturati dall’acqua, dalla terra, dall’aria e dal fuoco. Come suggerito dall’artista stesso, sono “testimoni” (questo l’etimo greco di “martire”) delle sofferenze attuali. Il liquido, rallentato o mostrato al reverse, è il fulcro simbolico centrale e ricorrente nell’opera di Viola. L’acqua è il motore narrativo di due importanti installazioni in mostra come Emergence (2002) e Deluge (2002). Nella prima, accostata al Cristo in pietà (1424) di Masolino, il tema della deposizione si fonde con quello della rinascita, il sepolcro è anche fonte battesimale e la presenza delle donne rimanda al parto. Nella seconda, forse una delle opere installative più cinematografiche di Viola, un bianco edificio diventa luogo di micronarrazioni quotidiane che sfociano nell’epilogo biblico. Il confronto stavolta è con il Diluvio universale e la recessione delle acque (1439-1440) di Paolo Uccello. L’acqua ritorna in altri lavori di Viola come Tempest (Study for the Raft)(2005) visibile a Santa Maria Novella, ma anche nell’autoritratto Submerged (2013) dove l’artista si filma immerso in una vasca, spazializzazione aggiornata di sue visioni monocanale: pensiamo al bellissimo e autobiografico film The Passing (1991), altra elegia in cui l’artista aveva raccontato con grande delicatezza la propria sospensione in uno stato di dormiveglia tra la vita (la nascita del figlio) e la morte (la scomparsa della madre).

Le moderne allegorie di Viola diventano ammonimenti che, pur nella loro violenza visiva, si rivolgono allo spettatore sempre con dolcezza, richiedendo una sua risposta empatica, fisica e concettuale, viscerale e mentale. Un altro lavoro di forte impatto allestito a Palazzo Strozzi è Inverted Birth (2014): il performer immobile sotto un getto di acqua-sangue-bitume-liquido amniotico, attraversa vari stadi di trasformazione ritornando alla purezza originaria. Mediante l’estetica dell’inversione – procedimento tecnico ma anche poetico-simbolico – Viola mette in atto una metamorfosi che allude all’elevazione spirituale e all’espansione della nostra coscienza. L’acqua nell’immaginario di Viola è una soglia da attraversare, il limite che separa il mondo dei vivi da quello dei morti. Un altro esempio è Acceptance (2008) allestito al Museo dell’Opera del Duomo e accostato alla lignea Maria Maddalena in penitenza (1455) di Donatello.

Mancano all’appello molte altre opere di Viola ispirate alla storia dell’arte italiana. Della serie Going Forth By Day (2002), composta da 5 pannelli elettronici, i curatori hanno scelto solo l’imponente The Path (cm 228×1097): uomini e donne attraversano all’infinito una pineta (rimando a Botticelli), ennesima allegoria di un cambiamento interiore. Naturalmente in mostra vi sono anche installazioni più minimali, oltre a quelle della Strozzina, opere come Catherine’s Room (2001) dove Viola gioca con il formato della predella o dei riquadri delle pale rinascimentali che suddividono le storie in episodi separati. La quotidiana meditazione della santa è suddivisa in piccoli monitor ed esposta insieme a una tavola di Andrea di Bartolo di fine ’300.

L’orizzontalità e la verticalità dei formati e della disposizione figurale, si susseguono alternandosi in un percorso da vivere come un’unica opera, dove al centro c’è naturalmente il corpo. Corpi fustigati dagli elementi, sospesi, trasfigurati, colti nel momento del passaggio, corpi che si autoesplorano, alla ricerca dell’immortalità (l’uomo e la donna anziani proiettati su lastre di granito nero, ispirati all’Adamo e dell’Eva di Cranach che si possono ammirare nella sala attigua) rappresentati nel bel mezzo di un viaggio iniziatico senza fine.

IL VIDEO SONO IO

TV 70 Francesco Vezzoli guarda la Rai

La pratica (diventata un po’ una moda) degli artisti che curano mostre e che invitano colleghi a prendere parte a un progetto collettivo, è ormai ampiamente diffusa. Ma l’operazione messa in piedi da Francesco Vezzoli, considerabile una star internazionale del mondo dell’arte, è alquanto diversa. Gli artisti, infatti, vengono “usati” anche in modo piuttosto discutibile, con l’obiettivo di raccontare il suo personale immaginario televisivo. TV 70 Francesco Vezzoli guarda la Rai, visibile alla Fondazione Prada di Milano fino al 24 settembre, mescola spezzoni televisivi con dipinti, fotografie, installazioni, sculture, ecc., realizzate tra il 1968 e il 1982. Dunque l’“alto” e il “basso”, l’arte contemporanea e la cultura mediatica. «Questa mostra», spiega Vezzoli in una conversazione con Klaus Biesenbach riportata nel catalogo tascabile di 740 pagine, «è un modo per mettere tutti questi elementi della nostra storia culturale sullo stesso livello, nella stessa stanza, nella stessa inquadratura. E’ la mia rivincita di me bambino».

TV70 si suddivide in tre sezioni: televisione e arte, televisione e politica, televisione e spettacolo. Nella prima, introdotta dalla serie di tele Paesaggi TV, realizzate da Schifano fotografando i monitor televisivi disseminati e accesi h 24 nella sua abitazione, il percorso si articola in una “dissolvenza incrociata” tra opere di artisti come Baruchello, Mauri, De Chirico, Boetti, Vedova e perfino Guttuso (il pittore ufficiale del PCI che nessuno osa più esporre: «Per me Guttuso è il Raffaello Matarazzo della pittura», osserva Vezzoli) e programmi del servizio pubblico dove gli stessi appaiono intervistati (come le conversazioni “cult” di Simongini, rispetto al quale Marzullo diventa Umberto Eco). Più interessanti esperimenti come Il televisore che piange (1974) di Mauri o le astrazioni elettroniche di C’era una volta un re (1973) di Carmi, corrispettivi dei lavori di Raysse alla ORTF o Campus alla WGBH-TV di Boston. Più claustrofobica è la seconda sezione dove lo spettatore è risucchiato nei neri corridoi tra decine di televisori che trasmettono tg e programmi di cronaca di un decennio fortemente cupo. Si ritorna “alla luce” e al dialogo tra arte/tv nella sottosezione dedicata al femminismo e alla figura della donna nell’arte e nella televisione: in un vasto ambiente moquettato di rosso spiccano i dipinti-sculture su sicofoil o plexiglas di Carla Accardi, mentre di fronte, su un tendaggio simile a quello degli studi televisivi dell’epoca, viene multivideoproiettato un programma rivoluzionario come Processo per stupro. Nell’ultima sezione Vezzoli propone un’ulteriore sovrapposizione (nel vero senso della parola) tra opere di Giosetta Fioroni, Lisetta Carmi, Tomaso Binga, Libera Mazzoleni, Elisabetta Catalano e programmi come Milleluci, C’era due volte o Stryx, dove spiccano icone televisive quali la Carrà e Mina, Grace Jones o Cicciolina. Il dispositivo messo a punto da Vezzoli in quest’ultima parte consiste nel proiettare ogni 5 minuti (con un timer) gli spezzoni sulle pareti dove sono disposte le opere, creando una visione expanded dove l’arte si dissolve nella tv. Il senso è piuttosto chiaro: questi varietà catodici rappresentano esteticamente una rottura alla stregua delle ricerche artistiche coeve. Del resto non si può dar torto a Vezzoli quando afferma: «Forse Milleluci per il fatto di essere seguito da 30 milioni di persone, e di avere due presentatrici era un gesto più radicale di molti altri». Il risultato è però un guazzabuglio d’artista, peggiorato da un’impostazione scenografica spesso ridicola progettata dal duo di designer dello studio M/M di Parigi.

La mostra – che non sarebbe stata possibile senza il contributo delle Teche Rai – vede l’apporto di Cristiana Perrella, Marco Senaldi e altri, che hanno suggerito e reperito per conto di Vezzoli gran parte dei materiali (in realtà è stata usato solo una piccola percentuale). Quello che a un curatore non sarebbe mai stato perdonato a Vezzoli è naturalmente concesso: «In questo contesto», aggiunge sempre il Nostro, «io stesso non sono un artista, non cerco di essere un curatore accademico o scientifico. Sono un bambino che gioca con i suoi ricordi». Chissà se gli artisti vivi (e morti) sono (sarebbero) contenti.

FIABE POP PER QUATTRO STAGIONI

Robert Wilson for Villa Panza. Tales

Uomo di teatro, creatore di immagini e artista visivo, Bob Wilson approda nella cornice di Villa Panza a Varese, dove sono conservate molte opere ambientali di maestri del contemporaneo come Turrell e Flavin, con una selezione di video portraits e due installazioni site specific. La mostra, organizzata dal FAI – che gestisce e valorizza questo splendido spazio – e curata da Noah Khoshbin (responsabile dei progetti espositivi dello Studio Wilson) e da Anna Bernardini (direttore di Villa Panza), sarà visibile fino al 15 ottobre ed è composta da oltre trenta opere, realizzate tra il 2004 e il 2016, allestite su grandi monitor tra i due piani della residenza, in dialogo con gli altri “pezzi” della collezione (soprattutto minimal).

Da un lato vi sono i ritratti del mondo animale, come quello di una volpe o di una pantera o i quadri digitali con la ventina di gufi (KOOL del 2016), multipli unici appesi alle pareti di una stanza in cui ciascun uccello si staglia su un fondo a pois di diverso colore; dall’altro i ritratti umani: Wilson utilizza come performer star dello spettacolo come Robert Downey Jr. o Brad Pitt. Tra di essi spicca l’articolato lavoro realizzato con Lady Gaga, una delle massime icone dell’immaginario musicale pop. L’artista, nella più classica tradizione del tableau vivant, reinterpreta quadri celebri inserendovi la cantante: il ritratto di Mademoiselle Caroline Rivière (1806) di Ingres, La morte di Marat (1793) di David, ma soprattutto l’installazione multicanale con la Testa di San Giovanni Battista (1507) di Andrea Solari. Questa serie di lavori che si snoda in tre stanze di Villa Panza immerse nell’oscurità, sono stati esposti per la prima volta nel 2013 al Louvre e, nel medesimo formato ridotto in cui appaiono a Villa Panza, presso la galleria Thaddaeus Ropac di Parigi.

L’opera forse più suggestiva di tutta la mostra, tuttavia, non è un’installazione video e non si trova all’interno bensì nel parco della villa: si tratta di A House for Giuseppe Panza: una piccola casetta di larice stile american shaker ispirata alla vita del collezionista scomparso qualche anno fa, L’opera site-specific è un film tridimensionale che evoca le atmosfere di un thriller o la sospensione temporale di un Magritte (L’Empire des Lumières), anche per questa ragione l’installazione acquista ancor più forza verso sera. Lo spettatore voyeuristicamente può solo intravvedere dalle finestre un avambraccio in resina con la mano sulle pagine di un libro aperto poggiato su un tavolo di legno. Il sonoro è composto dai versi di Rilke e dalle note di Michael Galasso (la cui musica accompagna anche alcuni video portrait all’interno della villa).

La poetica elettronica di Wilson è affine per molti versi a quella di Viola. Entrambi utilizzano l’immagine digitale come strumento per accedere a una dimensione pittorica e performativa, misurandosi con l’elemento temporale. Ma Viola ha un’impostazione più narrativa e attua nei suoi lavori una profonda riflessione sull’iconografia classica, mentre Wilson – anche quando parte dalla citazione pittorica – tende a stravolgerla, a contaminarla in chiave pop. Per Viola sarebbe impensabile utilizzare Lady Gaga o una presenza attoriale riconoscibile che contrasti con la ritualità della messa in scena e con la sua aura tecnologico-spirituale. Per Wilson conta l’effetto, il gioco di contrasti. Se Viola lavora sul sacro Wilson è profano, se Viola è rinascimentale Wilson decisamente barocco. Le storie e le allegorie senza tempo di Viola si rovesciano nell’immaginario di Wilson in fiabe moderne, come nell’altra installazione realizzata ad hoc per Villa Panza: A Winter Fable. Tratta da una delle favole italiane raccolte da Calvino, Comare Volpe e Compare Lupo, l’opera è un trittico di video interconnessi: tre ritratti dei singoli animali (lupo, volpe, agnello) legati a un unico paesaggio, onirico e surreale con la colonna sonora del duo musicale statunitense CocoRosie. «Spesso le persone mi chiedono quali siano le idee che stanno dietro alle mie immagini», spiega Wilson, «rispondo che non interpreto il mio lavoro. L’interpretazione è per gli altri. Le Favole sono una fonte di ispirazione, dare un significato a questo lavoro limita la sua poesia e la possibilità di far nascere altre idee».