La grande sbornia è quella dei premi. Quattro Oscar europei in dicembre a Berlino (a film, regista, attore, sceneggiatura), preceduti dal premio all’interprete maschile Mads Mikkelsen al Festival di San Sebastian e da quello alla carriera per il regista al FilmFestival di Lucca, che ne ha intuito per primo, dopo la selezione (virtuale) di Cannes, il potenziale drammatico e spettacolare. E adesso, dopo il César francese al miglior film straniero, Drunk – Un altro giro (in sala dal 20) ha ricevuto l’Oscar per il miglior film straniero (candidato anche come miglior regista). Sull’onda del successo alla Cineteca di Milano si potranno rivedere, Il sospetto (2012) e La Comune (2016).

Ci sarebbe di che far subito «un altro giro» con il cineasta danese Thomas Vinterberg, 52 anni questo mese, da un quarto di secolo tra gli autori europei più attesi al varco d’ogni suo film, da quando nel 1998 ha esordito con Festen (Grand Prix du Jury a Cannes), titolo inaugurale di Dogma 95, manifesto del movimento fondato con Lars von Trier.

Tra alti e bassi, da allora a oggi una dozzina di lungometraggi, tra cui, nel 2003, It’s All About Love, con Joaquin Phoenix, Claire Danes, Sean Penn, Il sospetto (Jagsten) nel 2012 (altro premio a Cannes, all’attore ormai feticcio, Mads Mikkelsen) o, nel 2016, La comunità (Kollektivet). E telefilm, clip (The Day That Never Comes, 2008, per l’lp Death Magnetic dei Metallica) e corti spiazzanti, come Il ragazzo che camminava all’indietro (Drengen der gik baglæns), altra sbornia cosmica di premi, dalla svedese Malmö al Festival international du court métrage de Clermont-Ferrand, all’International Film Festival di Toronto.

In linea con Drunk, presentato a Lucca in prima italiana , dal presidente del Festival, Nicola Borrelli e poi a Lyon, al Festival Lumière, dal suo direttore Thierry Frémaux, l’intervista è un cocktail: primo giro, le dichiarazioni del regista raccolte al Festival in Toscana, secondo giro quelle al Festival in Francia, dove il film è uscito in ottobre prima della chiusura pandemica.

Quattro professori verso la cinquantina e più di cinquanta bottiglie per provare una teoria: tutto qui, Thomas Vinterberg?
Evidentemente, no. La teoria è quella d’uno psicologo norvegese, Finn Skårderud (realmente esistente), secondo cui l’uomo soffre d’un deficit d’alcol nel sangue di circa 0,5 g al litro: e dunque occorre passare il resto della vita a riempire questo ‘buco’ gravissimo di Madre Natura. Ma nel film la compensazione del tasso alcolemico ‘ideale’ è pretesto d’altro.

L’alcol è una metafora?
Certo. Come in Festen il giovane beve per trovare il coraggio di denunciare il padre, qui i quattro adulti bevono per liberarsi. Quando hai la bottiglia alle labbra, sei in un nuovo spazio, puoi innamorarti o essere picchiato: sei nel rischio assoluto. Cioè, ti stai liberando di te stesso, della tua razionalità. Perdi ogni controllo. Altre lingue rendono bene l’idea dell’abbandonarsi all’incontrollabile e del recupero del vivere. To Fall in Love, tomber amoureux, precipitare nell’amore (ed è il meglio che ci possa capitare) o spiritueux/esprit, liquore/mente. Se la vita si ripete e appassisce, vuol dire che la morte s’avvicina: perciò i quattro si abbandonano all’incognita del rischio, d’un residuo di futuro, di quanto è rimasto per loro sconosciuto. I quattro sono molto meno assetati di liquore che del desiderio di dare nuovo slancio alla loro vita. Kierkegaard, citato nel film, scrive: «Se non ti permetti di perdere il controllo, perdi te stesso».

Perché nel suo cinema è così importante la famiglia, con tutto quel che le gira intorno?
Ho trascorso la mia giovinezza in una comune: solo dopo i 20 anni mi son riavvicinato alla famiglia, con un padre fantastico, che scriveva recensioni bellissime, persino dei miei film. Ho sempre cercato di realizzare film su chi cerca l’impossibile, insieme con altri, come in Drunk. I quattro cercano l’impossibile ma insieme: questo m’è rimasto dalla mia formazione di gruppo. Quando si fa qualcosa di folle insieme, si trova solidarietà: in una scena i quattro si tengono per mano.

Dogma95, fondato per svecchiare certo cinema imbalsamato, quanto ha contato per lei?
Quando Lars e io abbiamo lanciato il movimento, ho subìto ogni genere di rimprovero: Ma sei pazzo? È un suicidio! Lars e io ci sentivamo come precipitare nel vuoto: Fall in movie? Poi, con Festen premiato nel ’98, Dogma95 è diventato subito moda, cioè la fine del movimento. Oggi realizzare film secondo quei precetti sarebbe come indossare un’uniforme. Non più, come si voleva allora, rimettersi a nudo, ma fare del diligente antiquariato. Il primo impulso è stato inevitabile, quasi obbligatorio: camera a mano o a spalla, mobilità della cinepresa e degli attori, liberi di andare dove volevano, senza più seguire i segni per terra. Attori spaventati, che non sapevano più essere liberi: ho dovuto inventarmi nuove regole per loro.

Il suo rapporto con la cinepresa, lo conosciamo. E con gli attori?
Ancora più libero. Nel film Il sospetto, per esempio, avevo pensato al personaggio di Mads Mikkelsen come a uno tutto d’un pezzo, come Bob De Niro. Poi, ho cambiato il personaggio: un essere disarmato, che non avrebbe potuto reagire in modo così violento, rabbioso, in chiesa, se fosse stato di temperamento forte. Sono innamorato di questa scena, scritta un mese prima delle riprese, contro ogni mia abitudine. Il bello dei personaggi è quel che nascondono, non quel che rivelano: come un ubriacone che dice di non bere e poi si fa tradire dalla camminata. Devo dire grazie a un grande attore come Mads Mikkelsen (anche il suo cane si chiama Mads…) : non c’è un solo secondo che vada sprecato con lui nelle riprese.

E il rapporto con i registi? Bergman, per esempio.
Gli ho telefonato dopo Festen, per dirgli che gli avevo copiato una scena. «Non preoccuparti, mi ha risposto, anch’io ho rubato dai film». E subito mi ha chiesto: «Che farai ora ?». Gli ho esposto i miei progetti. «No, mi ha risposto, devi cominciare subito un nuovo film, prima che esca quello che hai girato. Altrimenti sei finito. Dopo l’uscita, sarai demoralizzato se il film non va bene o, peggio, se ha successo, cercherai di compiacere il pubblico».

Il bicchiere ha tanti precedenti illustri, tra politici e artisti. Ha riletto Hemingway prima del film?
Fiesta, certo. E altri titoli. Ma in Drunk c’è sopratttto il postumo Islands in the Stream, con una pagina intera per descrivere la composizione d’un cocktail a base di gin tonic e ghiaccio tritato, latte di cocco e Angostura: tutto descritto nei minimi particolari, come si trita il ghiaccio, che tipo di gin e di latte di cocco… Quella pagina è diventata la scena del cocktail nel film.

Drunk è stato funestato da una tragedia atroce: la morte in un incidente stradale della sua primogenita, Ida, di 19 anni, cui ha dedicato il suo Oscar.
Quattro giorni dopo il primo ciak. La mia vita, prima di questo film, era bella: felice del mio matrimonio e della mia professione, al punto che potevo capire nei quattro personaggi la paura di ripetersi, di perdere l’ispirazione, il ‘fuoco sacro’, legata al fatto di invecchiare. È anche di questo che parla Drunk.
La perdita di mia figlia ha oscurato tutto il resto. Ha cambiato tutto. Stavo girando un film su una catastrofe e la catastrofe era diventata la mia vita. Non ho cambiato nulla nella sceneggiatura: solo qualche aggiunta qua e là, qualche silenzio nei dialoghi, per iniettare nel film nuovi significati. Ma la celebrazione della vita c’era dentro già tutta: il soggetto era molto più grande dell’alcol.

Che cosa l’ha spinta, nonostante tutto, a continuare?
Mia figlia mi aveva scritto una lettera tre mesi prima delle riprese. Aveva letto la sceneggiatura, le era piaciuta moltissimo, si riconosceva del tutto nella mia descrizione della vita delle liceali, aveva l’impressione che si trattasse del suo liceo. Nella lettera diceva: «È la tua migliore sceneggiatura, l’adoro, non dubitare mai di te come artista». Probabilmente non avrei mai continuato Drunk senza quella lettera. Dovevo, per lei, arrivare fino in fondo