Legare i salari agli obiettivi. Precisazione dopo precisazione, il ministro del lavoro Giuliano Poletti ha chiarito l’obiettivo di una dichiarazione resa venerdì scorso a un convegno alla Luiss. «Dovremo immaginare un contratto di lavoro che non abbia come unico riferimento l’ora di lavoro ma la misura dell’apporto dell’opera» ha detto.«Non ho mai pensato di abolire l’orario di lavoro» ha specificato. In seguito ha spiegato che si riferiva al «lavoro agile» nelle aziende e al lavoro dipendente. Norme che dovrebbero confluire nel disegno di legge sullo «smart working» collegato alla legge di stabilità.

Vincenzo Bavaro, università di Bari
Vincenzo Bavaro, università di Bari

A Vincenzo Bavaro, docente di diritto del lavoro all’università di Bari, autore del libro Il tempo nel contratto di lavoro subordinato (Cacucci), chiediamo un parere sulle reali intenzioni del governo: «All’inizio ho preso le dichiarazioni di Poletti con una moderata sorpresa – afferma – In sé potevano essere condivisibili, a condizione di contestualizzarle. Se la prospettiva è sostituire la dimensione cronologica del tempo di lavoro, allora non è possibile farlo. Ancora oggi il tempo è pervicacemente agganciato all’orologio. Se, come ha ipotizzato, Poletti intende dire che la produzione del valore si determina in base alla produttività e non in base all’orologio, allora i sindacati hanno ragione a dolersene».

Quale dovrebbe essere, a suo avviso, la giusta prospettiva?
Pagare il tempo che produce valore. Remunerare il tempo per le trasferte, ad esempio, come previsto da molti contratti collettivi. Pagare il tempo di studio impiegato dai lavoratori della conoscenza, delle tecnologie, nell’informativa, nei servizi. Questo è tempo lavorato, ma non calcolato con l’orologio. Su questi problemi il nostro sistema è ancora molto fordista.

Insieme al discorso sui salari più legati agli obiettivi, Poletti ha rilanciato l’idea della partecipazione dei lavoratori alle imprese. Che ne pensa?

Il fatto che si parli, nello stesso discorso, di nuove forme di remunerazione di lavoro e forme di partecipazione vuol dire che si sta pensando di determinare il salario a forme di raggiungimento di obiettivi di produttività. Ma poi, mi chiedo, si sta parlando di partecipazione azionaria agli utili? Oppure di partecipazione al governo delle imprese? Sono discorsi diversi.

Quali sono le differenze?
Nel primo caso la partecipazione è a valle, su risultati eterodeterminati sui quali il lavoro non può intervenire. Nel secondo caso si partecipa all’organizzazione del lavoro e alle scelte aziendali, un modello in linea con l’articolo 46 della costituzione. Sono modelli profondamente diversi dal punto di vista della filosofia politica: il primo riguarda la determinazione del salario, il secondo riguarda la democrazia.

A quale modello pensa Poletti?
Al primo. Fa il paio con la forte spinta a legare il salario alla produttività.

Questo significa indebolire i contratti nazionali del lavoro dipendente?
Se la produttività si determina in azienda lo deve essere anche il salario. In questo caso il contratto nazionale non scompare, ma riduce la sua funzione perequativa.

Venerdì Poletti sembrava alludere alla distinzione tra opera e lavoro di Hannah Arendt con l’allusione a una maggiore libertà nel rapporto di lavoro…
È un’interpretazione sofisticata, ma possibile. In Arendt l’opera afferma i principi di libertà e autonomia. Ma questo è possibile se si smonta il modello gerarchico tipico dell’impresa capitalistica. Se non lo si fa è evidente che si riduce tutto, ancora una volta, a un escamotage per smontare il rapporto tra salario e lavoro.

Qual è il suo consiglio?
Creare una legge sulla rappresentanza sindacale e sulla contrattazione collettiva nazionale. Reinsediare i sindacati nei luoghi di lavoro e frenare l’eclissi del contratto collettivo nazionale di lavoro. La legge non può imporre la sindacalizzazione, ma può sostenere i processi o contrastarli.