Se dal punto di vista iconografico, dell’invenzione di forme atte al racconto, di soluzioni narrative fuori dalla Storia e costruite invece intorno alle sagome viventi, alla loro plastica, di cui si nutre il cinema, Mank risulta abbastanza anodino, incolore; invece per quanto riguarda l’illustrazione chiaroscurale – dove l’incolore allora diviene strumento espressivo fondamentale –, cioè la rappresentazione stratificata della Hollywood tra la fine degli anni Trenta e l’inizio dei Quaranta, il film di Fincher è interessante nell’illustrazione che fa delle contraddizioni legate alle grandi produzioni, tese tra sfoggio, spreco di mezzi e speculazione; grettezza d’idee e spazio lasciato a tematiche antiborghesi e alle sperimentazioni.
In questi anni si colloca l’esordio di un regista straordinario, capace di adattarsi, pur a costo di compromessi, rinunce ecc., a questo ambiente raccontato, storicizzato da Fincher, sfruttandone le intercapedini, gli scarti esistenti tra ingiunzioni produttive e affiorare di soluzioni espressive nuove: quel Vincente Minnelli dietro le cui danze volatili, la leggerezza stilizzata delle sagome, la parola evanescente nelle spire del canto, si nascondeva una grande consapevolezza teorica, riminiscenze infantili (il teatro viaggiante in cui era cresciuto), un grumo inconscio insondabile, fors’anche inquietante, emergente in sintomi luminosi sulla superficie dell’immagine.

IL MELÓ, CHE IN MINNELLI si declinò secondo profondità spesso vertiginose, attraversando i varchi trasparenti, arei degli specchi, è lo spazio in cui questi turbamenti emergono con più evidenza se si pensa ad esempio a Madame Bovary (1949) il cui portato onirico e drammatico è dotato secondo Gilles Deleuze di una «potenza divorante, spietata». La stessa, intrinseca a un nucleo sotteso, a un Es nella nomenclatura di Freud, per nulla estraneo alla cultura di Minnelli, insomma una dimensione tutta privata a cui aveva fatto riferimento anche Kirk Douglas nel suo discorso pronunciato al funerale di Minnelli nel 1986, come riporta Daniela Turco nel suo bellissimo libro Vincente Minnelli. La materialità del sogno appena uscito per le edizioni Fondazione Ente dello Spettacolo.

Vincente Minnelli con la piccola Liza

QUI L’AUTRICE SI SOFFERMA, soprattutto nelle prime pagine, sull’apprendistato fanciullesco di Minnelli con i corpi, le maschere, le mosse burattinesche degli arti protesi o le coreografie più fluide confluite poi nel modello hollywoodiano del musical, per poi evocare un bacino di idee e immagini in fermentazione nella coscienza del regista maturo, fatto di rimozioni, vagheggiamenti, desideri focalizzati anche attraverso strumenti freudiani che gli provenivano da una certa pratica con la cultura europea, sulla cui base si edificavano i sogni minnelliani, caleidoscopio di forme e colori che sono, a ben guardare, le forze primitive di questo cinema, la spinta ancestrale che si solidifica in profili, figure già pronte a sciogliersi di nuovo in sprazzo, in pura luce errante nell’aria. È la materia dei sogni, appunto, tra incarnazione e sorvolo, addensamento di segni e fuga in astratto, che sembra tracciare la soglia intorno a cui si svolge tutta l’esperienza artistica di Minnelli, se si pensa a un film emblematico come Un americano a Parigi (1951) in cui sin dall’inizio la visione di Lisa (Leslie Caron), la presentazione che se ne fa in sfondi variopinti, è così carnale, come riempita di carne-colore in cosce tornite spalancate su una sedia, come sarà poi per il Mulligan (Gene Kelly) pittore danzante, imbastito in indumenti aderenti a un corpo di gambe, di glutei: sostanza a tinte smaglianti, arrivata da un altrove, dal fuori-campo di ipotesi baluginanti, dalla dimensione informe ma in-forze del potenziale.

DOPO UNA PRIMA PARTE in cui Turco passa in rassegna i film di Minnelli secondo un ordine cronologico che contempla musical, commedia e meló, evidenziandone i legami con la pittura, i dipinti, proprio le tecniche coloristiche dei grandi pittori tra fin-de-siècle e avanguardie, la seconda parte del libro è incentrata sui presupposti teorici, filosofici, sperimentali di questo cinema, a partire da Deleuze e dal carattere assorbente che il filosofo francese riscontrava nell’uso del colore da parte del regista americano: qualcosa di divorante, che attira a sé gli oggetti, le persone, tutta la realtà, per annullarla, anzi reinventarla, nel sogno variopinto.
È il sogno dei diciassette minuti finali di Un americano a Parigi, visibilio di corpi, estroflessione di tempo (anche nel senso del ritmo impresso dalla musica e dalla danza) condotta dalla sostanza, dall’esserci ontologico dei colori, talmente magnetico da portare a sé – un transito incarnato negli stupefacenti movimenti di macchina minnelliani –, fagocitare la realtà in cui l’amore era ormai perduto, per cambiarla, per far tornare la sagoma candida, carnale di Lisa ed eternarla nel passaggio fugace, sempre presente, dell’immagine.