Mario Schifano, “Grande particolare di propaganda”, 1962

A Roma in quell’inizio di anni sessanta gli unici rimasti a dipingere erano gli operai chiamati a verniciare i selciati delle strade con strisce pedonali e segnaletiche orizzontali. Il boom delle auto costringeva le città a «ridisegnare» le proprie strade. Nel bellissimo film di Elio Petri I giorni contati, uscito nella prima metà del 1962, il protagonista, un memorabile Salvo Randone, dopo aver lasciato il lavoro, si divertiva a bighellonare di notte per Roma prendendo in giro gli operai che, con pennello e secchi di vernice bianca, erano costretti a piegare la schiena per dipingere strisce regolari sull’asfalto. Negli studi degli artisti, all’opposto, si respirava una radicalità che non lasciava più spazio alla pittura. «La pittura era finita e bisognava scoprire qualcosa di nuovo, di vivo, di attuale», ha raccontato Mimmo Rotella che in quegli anni agiva con i suoi décollage, interagendo quindi con l’ambiente urbano.
Come poteva vivere Mario Schifano, artista con la pittura nel sangue, questa transizione radicale, questa che Maurizio Calvesi ha chiamato «condizione zero»? È il tema affascinante di un libro di Giorgia Gastaldon, esemplare esercizio di archeologia del contemporaneo, frutto di una tesi di dottorato a Udine, la cui pubblicazione è stata resa possibile grazie alla Biblioteca Hertziana-Istituto Max Planck per la storia dell’arte: Schifano. Comunque, qualcos’altro (Silvana, pp. 200, 58 ill., euro 39,00).
Il libro scava in questa situazione cruciale, che va dal 1959, anno della mostra di esordio dell’artista alla Galleria Appia Antica, fino alla consacrazione con la partecipazione alla Biennale del 1964: un’attenta ricostruzione e risistemazione della cronologia così da rendere più chiari questi albori dell’arte di Schifano.
Il titolo è tratto dall’unica dichiarazione di poetica che Schifano abbia mai rilasciato e che aveva affidato in forma di appunto a Maurizio Calvesi tra 1961 e 1962. «Suggerito dalla memoria lo comincio; sapendolo già lo elaboro; usando sopra la superficie: colla, carta, smalto. Lavorando copro tutto: a volte è giallo, a volte è nero oppure bianco e blu o rosso; infine come per dargli un nome e accettarlo ci segno una cifra, a volte. Questo è il mio quadro, non so se frattura con il gusto corrente; per me, comunque, qualcos’altro». Parole che avanzano per suggestioni e allusioni, ma che nello stesso tempo si soffermano sulla concretezza dell’atto artistico e si chiudono con quell’affermazione che ci parla nei termini di una necessità e anche di una irriducibilità. A quel punto del percorso Schifano aveva sperimentato con la prima personale all’Appia Antica un tentativo di aggirare la pittura attraverso l’uso del cemento, sotto l’egida di Emilio Villa. Era un tentativo poi subito abbandonato, ma quel passaggio gli aveva permesso di appropriarsi del paradigma del «quadro oggetto». Il quadro è pensato come «oggetto autoreferenziale perché incardinato alle categorie sulle quali era costituito, cioè i vari materiali utilizzati per realizzarlo»: un fattore di coscienza che accomunava le esperienze più avanzate a Roma ma in particolare a Milano. «Un quadro vale solo in quanto è, essere totale. Alludere, esprimere, rappresentare sono oggi problemi inesistenti», sosteneva il più oltranzista di tutti, Piero Manzoni.
È proprio partendo da questa consapevolezza che Schifano si inoltra nell’esperienza del monocromo. L’esordio è alla galleria La Salita di Gian Tomaso Liverani, nel 1960, con la collettiva 5 pittori Roma 60. Angeli, Festa, Lo Savio, Schifano, Uncini. Il «quadro oggetto» è tecnicamente complesso. Schifano lavora a volte sul telaio aggettante, a volte usa la traversa per dare forma a dei dittici. Ma è il lavoro sulla superficie della tela a dare più stimoli all’artista e a permettergli di esercitare quella che Gastaldon definisce «una ricercata piacevolezza materica del dipingere». Vinavil e Ripolin sono i ritrovati a cui Schifano fa ricorso in modo sistematico per i suoi monocromi. Con il Vinavil bagna i fogli di carta con i quali copre la superficie della tela; il Ripolin è invece uno smalto dalla ricetta tradizionale, molto coprente, che l’artista usa senza diluirlo con la trementina per ottenere un colore più corposo e denso e rendere così ben percepibile la fisicità della materia pittorica. Come ha scritto Flavio Fergonzi (supervisore al dottorato di Giorgia Gastaldon) il risultato è di «spingere l’osservatore a indugiare sulla vitalità pittorica del quadro».
Il passaggio successivo è quello decisivo del ritorno delle immagini. Anche in questo caso, pur nella sua reticenza a parlare del proprio lavoro, è Schifano a inquadrare sinteticamente la situazione con una testimonianza affidata a Nancy Ruspoli: «O uno andava nelle strade e guardava i cartelloni pubblicitari, o andava nelle gallerie a vedere i quadri informali. Stranamente per me e altri pittori era quello che si trovava all’esterno delle gallerie che ci sollecitava». È il 1961. A marzo apre la personale alla Tartaruga di Plinio De Martiis. Schifano lascia trasalire sulla superficie della tela forme che sono insieme astratte e immagini tratte dall’occasionalità di quegli sguardi sul mondo. In Roma 1961, a bande verticali bianche e nere, dove il bianco che ha una corposità data dalle increspature della carta e dalle colature dello smalto, richiama il contesto del film di Petri. La segnaletica è un incentivo, diceva l’artista. Che concludeva: «Poi, dipingere comunque».
Fondamentale punto di riferimento in questa transizione è Jasper Johns, che diventerà suo interlocutore diretto in occasione del viaggio americano del 1963 ma la cui fama era già consolidata in quel 1961. È un rapporto che è stato indagato da Fergonzi nel suo libro sull’influsso dell’artista americano in Italia (Electa 2019, recensito su Alias-D da Luca Pietro Nicoletti, 15 marzo 2020). Schifano avrebbe fatta sua la lezione di Johns: «il campo pittorico, in un quadro moderno, può accogliere l’immagine solo se dichiara l’autonomia della pittura».
Su questa lezione Schifano innestò però la sua italianità, come aveva rilevato da subito Cesare Vivaldi. Evita di restare bloccato su un’interrogazione fredda sul significato del vedere e invece lascia che i linguaggi della tradizione si sovrappongano alle seduzioni della visione moderna della città. È il momento della meravigliosa fioritura che culmina nella presenza alla Biennale del 1964, preceduta dalla mostra newyorkese dello stesso anno alla Galleria Odyssia. Sulla copertina del depliant di quella personale compare un disegno dal titolo emblematico En plein air. Un germe felice di paesaggio che esplode, per quanto trattenuto dalla disciplina di un monocromo, nei grandi quadri dipinti a New York e mandati a Venezia.
«Sono bellissimi. Sono puliti e pieni di cose, saranno i più moderni e i meno modernisti della Biennale», annunciava a Calvesi nel maggio 1964. E in quelle parole si riconosce anche uno scatto d’orgoglio rispetto all’America che non lo aveva capito.