Il quadrante segna le 2:46. Le lancette di una grossa sveglia avanzano impercettibilmente da un’immagine all’altra, uno scatto ogni quattro secondi e mezzo circa. Un minuto di fotografia, una serie di tredici piccole fotografie realizzata da Franco Vimercati nel 1974, condensa uno stile visivo e un’attitudine intellettuale che percorrono l’intera produzione dell’artista milanese, scomparso nel 2001 a 71 anni: pochi oggetti, isolati da ogni interferenza esterna, inquadrature ravvicinate, uso di serie e permutazioni, grande austerità formale. Tutti tratti che insieme a un carattere schivo e a una scarna produzione hanno contribuito a rendere la sua figura una delle più enigmatiche e singolari della scena artistica italiana degli ultimi decenni.
La traiettoria creativa di Vimercati – ben condensata ora nella mostra Franco Vimercati, la fotografía, la vida Un diálogo con Giorgio Morandi curata da Elio Grazioli all’Istituto italiano di cultura di Madrid (fino al 21 giugno) – ha coinciso con l’affermazione della fotografia come medium artistico, in particolare nelle pratiche dell’arte concettuale tra anni sessanta e settanta del secolo scorso. Se in quel contesto la fotografia diviene uno strumento essenziale per scandagliare e dissezionare il rapporto tra rappresentazione e mondo visibile, che genere di «concettualità» è quella di Vimercati? Per comprenderlo si può mettere a confronto il suo lavoro con quello di Ugo Mulas, in particolare con le sue presto canoniche Verifiche (1969-’72), in cui erano dissezionate le proprietà dell’operazione fotografica. A contrasto con la lucida analisi di Mulas, per il Vimercati di Un minuto di fotografia e di altri lavori come le serie Bottiglie di acqua minerale (1975) e Tele (1976, in mostra a Madrid), il medium è sì esplorato nella sua tendenziosa parzialità ma al tempo stesso esposto come crocevia di piccole rivelazioni. Le «cose», banali, anodine, non sono infatti per Vimercati semplici appigli speculativi ma presenze individuate con precisione, in cui affiora l’irriducibile azione del tempo e dell’entropia e insieme il valore dell’incontro con un pezzo di reale.
Il lavoro dell’artista italiano non è lontano in questo senso da quello di Berndt e Hilla Becher, nella cui fotografia si combinano rigore documentario, riflessione teorica e suggestione inconscia. Vimercati interpreta tuttavia il suo compito con diverso coinvolgimento tattile ed emotivo. Anziché architetture o impianti industriali osservati con sguardo distaccato, i suoi sono oggetti quotidiani, cose direttamente maneggiabili, spesso collegate agli ambiti del corpo e dell’alimentazione (grattugia, bicchiere, ferro da stiro, caffettiera, ecc.), che sottintendono sempre un interno domestico e degli abitanti vivi.
Un confronto forse ancor più rivelatore è forse possibile farlo con Joseph Kosuth, un protagonista della corrente concettuale ben noto in Italia a partire dalla fine degli anni sessanta, e in particolare con una installazione, The Eighth Investigation, dominata da grandi orologi a muro, una cui versione fu esposta alla galleria Toselli, a Milano, nel 1971. Se il dispositivo dell’artista americano ha come fine rendere palese il processo di codificazione e decifrazione tra «realtà» e «arte», per Vimercati la relazione tra tempo della vita e tempo fotografico contiene sempre invece uno scarto non nominabile, un punto cieco: lo spazio incerto tra un segno e l’altro sul quadrante della sveglia, una zona d’ombra in cui si annida lo scacco del linguaggio, la precognizione del nulla, forse la morte.
Per questo forse ogni scatto implica una rivelazione troppo intensa, una puntura, come accade nel lavoro più estremo e poeticamente intenso di Vimercati, Il ciclo della zuppiera (1983-’92), una serie di circa un centinaio di immagini realizzata nell’arco di un decennio come una partitura di variazioni arbitrarie. Un approccio questo che dà sostanza non solo formale al confronto tra la sua opera e quella di un altro grande recluso nell’atelier, Giorgio Morandi, figura insieme idiosincratica e profondamente tipica della modernità novecentesca italiana, punto di calibrazione, come argomenta il saggio recente di Massimo Maiorino, Il dispositivo Morandi. Arte e critica d’arte 1934-2018 (Quodlibet 2019), per la ricerca di numerosi fotografi italiani.
L’opera di un artista può essere letta anche attraverso ciò che essa non dice o non fa vedere. Nel caso di Vimercati si potrebbe in fondo interpretare il suo «ritiro», il suo mettersi in ascolto della vita delle cose, non solo come il segno di una volontà di raccoglimento, come un ritiro morandiano nello studio, ma anche come sintomo di un’intima, inconfessata, traumatica rottura con un’epoca che faceva irrompere, nell’arte come nella vita, in Italia e ovunque, una corrente cieca di cambiamento, il culto dell’inorganico, del consumo, della superficie. «Io sono un Becher latino», ha detto di sé Vimercati parlando a Elio Grazioli nel 2000, cercando di sottrarsi a un paragone diventato in fondo troppo agevole. Ma la semplicità, l’apparente mancanza di conflitto nel mondo fotografato da Vimercati, il suo montare e rimontare le stesse cose, il suo ritornare fatalmente alle stesse immagini, somiglia più alla ricerca faticosa, e per nulla garantita in partenza, di un istante di equilibrio, di una precaria tregua con la vita: sul fondo vi si misurano l’inquietudine e la radicale difficoltà di fare esperienza.