Le risorse della letteratura, i suoi giochi, i suoi artifici, sembrano essere, per Vila-Matas, molto più attraenti degli stimoli offerti dalla realtà e più gratificanti delle lusinghe narcisistiche implicite nel racconto autobiografico. Il protagonista dell’ultimo libro titolato Mac e il suo contrattempo (traduzione di Elena Liverani, in uscita giovedì da Feltrinelli, pp. 288, euro 19,00) è infatti un amante della falsificazione, che ha in progetto la riscrittura del romanzo già pubblicato da un suo vicino di casa, Ander Sánchez, titolato Un problema per Walter: dove il problema in questione è che il narratore, un ventriloquo, si sente incapace di separarsi dalla propria voce per aderire a quella dei personaggi via via immaginati. Il libro di Sánchez è composto da dieci racconti, a loro volta imitazioni, o parodie, di testi brevi presi da grandi scrittori, e ora Mac tenta di immaginare come lo migliorerebbe, affidando le sue annotazioni a un diario segreto.
Non si sa bene perché, Mac si presenta inizialmente come un impresario edile la cui ditta è fallita, ma più avanti confesserà di essere un avvocato recentemente licenziato dallo studio per il quale ha lavorato tutta la vita, senza giustificare in alcun modo il cambio di abito, da una professione all’altra. D’altronde, tutto in questo romanzo – compresa la comparsa di un mendicante che rimprovera Mac di avergli dato troppo denaro e lo ammonisce perché non sperperi i suoi averi – sembra eleggere il paradosso a condizione naturale dell’esistenza. Il nome stesso del protagonista viene da una freddura, che i suoi genitori avevano evidentemente adottato come modello di ironia: Mac si chiama l’uomo che in una scena di Sfida infernale, alla domanda se fosse mai stato innamorato, risponde: «No, sono stato cameriere tutta la vita».
Una qualche coerenza unisce questo romanzo al precedente Kassel non invita alla logica, dove il narratore, richiesto di esibirsi nell’atto di scrivere per la mostra «Documenta», finisce con il trasformarsi in un’opera d’arte. In quelle pagine compariva, peraltro, l’espediente narrativo che Hitchcock ha chiamato mcguffin, un dettaglio annunciato come cruciale, che tuttavia si perderà nella trama lasciando dietro di sé solo la sua incongruenza. Nell’ultimo romanzo, Mac riflette sul fatto che «scrivere è smettere di essere uno scrittore» (affermazione buttata lì come una massima zen) mentre combatte per difendere lo statuto di diario del suo testo, che insidiato dalla «realtà della strada» rischia di trasformarsi in un romanzo.
Nelle sue schermaglie con la scrittura, Mac passa attraverso il fallimento del proprio iniziale progetto, che consisteva nell’alternare il resoconto delle soluzioni immaginate per la rielaborazione del libro di Sánchez, con le previsoni dell’oroscopo che gli fornisce l’astrologa Peggy: non funziona, si dice, e intanto la voce di un morto gli parla nella testa intromettendosi con laconiche, assurde indicazioni.
Vita vera e letteratura si incrociano, come nelle migliori tradizioni, nell’esistenza di Mac, il quale comincia un giorno a sospettare che sua moglie abbia una tresca con il vicino Sánchez, e, tornato a casa, nel compulsarne il romanzo si imbatte in un capitolo titolato Carmen, il nome di sua moglie appunto; poi, subito dopo, appena zittite le proprie paranoiche ricerche di conferma, apre il capitolo successivo e lo vede titolato L’effetto di un racconto, ciò che tramuta in certezza il sospetto che si stia cospirando contro di lui. Vila-Matas avrebbe potuto sfruttare a lungo questo cliché del racconto nel racconto, che rivela e conferma la vita vera, ma lo abbandona invece subito dopo averlo messo in campo, interessato a evocare il repertorio letterario, solo per frustrarne sapientemente le attese.
Dunque Mac procede nel suo diario, provandosi in diverse strategie, «sempre con il desiderio di sapere cosa scriverei se scrivessi»: perché il suo progetto più ambizioso non è, ovviamente, rielaborare per migliorarlo il romanzo del vicino, ma lasciare dietro di sé un libro «falso, che possa sembrare postumo e incompiuto mentre in realtà sarebbe del tutto concluso». Sulla spiegazione della logica che governa il romanzo, la parola a Vila-Matas, che la prossima settimana sarà al Salone del libro di Torino.
Nella personalità di Mac sembra sia sempre in atto una sorta di scissione: fra la voce narrante del diario, che non vuole rischiare di trasformarsi in qualcosa di romanzesco, e la sua propensione alla menzogna, che è invece tipicamente romanzesca. Che senso ha, ad esempio, spacciarsi per imprenditore edile per poi dire che è un avvocato?
Mac guarda, vede, legge, ascolta, e tutto gli sembra suscettibile di venire alterato. Dunque lo altera, perché ha la vocazione del falsificatore. Non è così strano che decida di presentarsi con un imprenditore edile per poi dire di essere un avvocato. All’inizio del suo diario Mac vuole fuggire dal proprio passato di uomo di legge, perché semmai quel che scrive non gli riuscisse bene e lo facesse sembrare una persona rozza, incolta, allora preferirebbe farsi passare per un semplice uomo d’affari.
Tutto è paradossale in questo libro: per un verso Mac è un grande amante della falsificazione, ma per un altro verso ha una adesione alla realtà così pedissequa da avere bisogno di alzarsi dal tavolo e interrompere la scrittura del diario per poter giustificare una sospensione del diario stesso… Quale crede che sia l’origine di questo suo interesse per il paradosso?
Nella scrittura, o almeno nella mia, si realizza un paradosso essenziale, senza il quale essa non sarebbe la fonte di tutti i miei piaceri e insieme di tutti i miei problemi. Nel passaggio che lei ricorda, mi sono molto identificato con il narratore del Romanzo luminoso di Mario Levrero, che sembra scrivere proprio per negare la possibilità di riuscire a mettere a punto un «romanzo luminoso»; riempie pagine e pagine, mette a verbale ogni ogni distrazione, ogni avvenimento, ogni pensiero per piccoli che siano. È un uomo che, in realtà, fa tutto questo perché intrappolato tra l’obbligo, il timore di scrivere quello che sarebbe un «romanzo buio» e il desiderio di «raggiungere la luce» attraverso la parola.
In «Kassel non invita alla logica» lei cita una frase di Nietzsche che le è cara: «Solo come fenomeno estetico l’esistenza e il mondo sono eternamente giustificati». È una frase che riguarda anche l’indole di Mac, il quale, per esempio, assiste allo scontro tra un passante e un venditore di sigari colombiano, e sebbene sappia che uno dei due potrebbe morire, quel che davvero lo preoccupa è la «tensione di genere tra racconto e romanzo»…
Il fatto è che per me, nei romanzi lo stile è il re e la trama un soldato semplice. Lo stile avanza a falcate trionfali e la trama arranca dietro di lui, trascinando i piedi. Al momento di scrivere non mi attira granché raccontare storie in cui ci sia molta «azione»: ciò che soprattutto mi seduce è fissare l’attenzione sulla trama di una mente: di solito – e non potrebbe essere altrimenti – la mia mente.

La voce del morto che si fa sentire nella testa di Mac a quale entità corrisponde? Chi è questo «morto»?
Credo che ci intenderemo se le dico che la voce del morto somiglia a quella del padre di Amleto. È una specie di «energia dell’assenza», un concetto che faccio comparire soprattutto in Esta bruma insensata, il romanzo che ho appena pubblicato in Spagna.
I diversi racconti in cui si articola il libro di Sánchez, che Mac immagina di riscrivere, hanno una qualche radice nelle sue letture o sono del tutto inventati?
Tutti quei racconti vengono dalle mie letture: sono ricordati e, perciò, un po’ modificati dal fatto stesso di essere ricordi. Perché nel ricordare siamo soliti inventare abbastanza, giusto?
Lei ha senminato nel romanzo chiuse di frasi, o passaggi, che istituiscono dei salti logici, in cui Mac passa bruscamente da un argomento all’altro: è per mimare le libere associazioni del pensiero?
È per dare a quei passaggi un tono marcatamente umoristico: sin dal primo momento l’autore ride del povero Mac, a volte è crudele e lo trasforma in un ridicolo amateur della scrittura.
In fondo, il problema di Walter, ossia come trovare una sua voce di romanziere, è uno dei problemi principali di tutti gli scrittori. Lei crede avere cambiato voce nel corso della sua evoluzione di romanziere?
L’acerbo romanzo scritto dal vicino di Mac trent’anni prima, Un problema per Walter, è in realtà un libro intitolato Una casa per sempre, che ho pubblicato nel 1988 a Barcellona e del quale, al momento di scrivere questo mio ultimo romanzo ho mantenuto solo la trama di «biografia obliqua», opera di un ventriloquo. Nel riscrivere quel mio vecchio romanzo, ho raddoppiato il numero di racconti che conteneva, e in questo modo la struttura si è ampliata ed è visibilmente migliorata. Il risultato è che ora risalta la formidabile archiettura struttura del romanzo, una struttura quasi onirica. Lo stesso è successo alla mia opera che, con il passare del tempo, è diventata più complessa: una vera benedizione, perché se quello che scrivo adesso fosse identico a quello che scrivevo trent’anni fa, sarei semplicemente un mostro. E lo sono, un mostro, ma non a causa della mia scrittura, ma per il mio spietato – nei confronti di me stesso – senso dell’umorismo.
Anche questo romanzo, come già «Kassel non invita alla logica» è una sorta di variazione su un viaggio ai confini dell’immaginazione. Il suo interesse per le arti visive contemporanee, dunque forme di arte che presuppongono l’emancipazione dal bello, è sempre stato molto forte. Ci vede una parentela con il genere di romanzo che la interessa?
Un viaggio ai confini dell’immaginazione? Senza dubbio: una esplorazione dell’abisso, in cui includo il sospetto che le arti visuali siano il luogo nel quale è confluita l’eredità degli scrittori modernisti, Joyce e compagnia. Il fatto che l’arte non si proponga più di fabbricare nulla, ma solo di generare situazioni e contesto, mi sembra dare luogo a un territorio davvero molto fertile. Il mondo editoriale vive troppo prigioniero della logica del mercato, mentre quello artistico è molto più flessibile, inquieto e pieno di lampi all’orizzonte.