«Non rimpiango certo di aver baciato, mangiato, visto il sole; mi rincresce di essermi avvicinato alle cose cercando di dare loro un indirizzo, mentre tutto seguiva un itinerario prestabilito (…). Non sono riuscito a cambiare niente». Con questa amarognola constatazione, nel maggio del 1922, schivato per un pelo l’arresto a Pietrogrado e raggiunta la Finlandia camminando sul giaccio, Viktor Šklovskij riprende la stesura di una straordinaria cronaca autobiografica degli anni tellurici inaugurati dal 1917. Affabulatore professionale, narratore compulsivo e straripante, nel giro di pochi giorni rovescia sulla carta una zavorra di ricordi, racconti fugaci, aneddoti e meditazioni metafisiche: forse per sgravarsi di un peso diventato insostenibile, certamente per guadagnare due soldi, ma anche e soprattutto per chiudere a caldo i conti con un passato ingombrante.

Un anno dopo, a Berlino, Šklovskij unisce questo copioso capitolo di memorie a un altro suo testo, La rivoluzione e il fronte, scritto nel 1919, si concede un epilogo e dà il tutto alle stampe con un titolo che è un divertito omaggio all’amatissimo Sterne: Viaggio sentimentale (riproposto da Adelphi, a cura di Serena Vitale, nella nuova traduzione di Mario Caramitti, pp. 346, euro 22,00).

Una animalesca duttilità
Tutto comincia a Pietrogrado, a ridosso della rivoluzione di febbraio. Šklovskij è un militante del partito socialista rivoluzionario, reduce dal fronte, ora istruttore in una scuola per autisti di blindati. Di lì a poco si ritrova a combattere contro l’esercito austro-ungarico. Caldeggia il proseguimento della guerra, convinto com’è che la disfatta militare dei tedeschi avrebbe favorito il buon esito della rivoluzione socialista tanto in Russia che in Germania. Tiene comizi per incitare alla riscossa le truppe russe in sfacelo, inebetite, affamate di armistizio. Partecipa da soldato semplice all’offensiva in Galizia, l’ultimo attacco sferrato dalla Russia durante la prima guerra mondiale. Figlio di un ebreo, non gli verranno maiconferite le spalline da ufficiale. Šklovskij è testimone diretto del tentato colpo di mano del generale Kornilov contro la rivoluzione. Dopo numerose disavventure, partecipa infine alla poco gloriosa, e talvolta efferata (perché costellata di pogrom), ritirata dell’esercito zarista dalla Persia.

Non è finita. Tornato nel gennaio 1919 in una Pietrogrado stremata dalla fame, riparte quasi subito per Saratov, dove prende parte alla fallita congiura antibolscevica guidata dal leader socialista rivoluzionario Grigorij Semënov (che in seguito, essendosi pentito, denuncerà tutti coloro che, come Šklovskij, avevano partecipato alle attività sovversive del Partito socialista rivoluzionario). Di lì a poco lo troviamo in Ucraina sul fiume Dnestr a combattere contro l’Armata Bianca. Gli esplode un detonatore tra le mani, le schegge gli si conficcano in tutto il corpo. Lungo e tortuoso è il viaggio di ritorno dall’Ucraina, assieme ai prigionieri di guerra, spesso sui tetti dei vagoni ferroviari. Il futuro autore di Teoria della prosa affronta ogni sorta di privazione con animalesca duttilità: «So fluire, cambiare, diventare ghiaccio e vapore». È in grado di pensare astrazioni, e di scrivere come si deve, in qualsiasi condizione. Mentre «salta in aria», si rammarica di non aver concluso lo studio su L’intreccio come fenomeno di stile al quale lavorava in quegli anni.

Fondatore di una concezione della letteratura conosciuta lungo tutto il Novecento come «scuola formalista», deciso a intendersi della scrittura come era arrivato a padroneggiare il funzionamento dei mezzi blindati, Šklovskij è consapevole del fatto che soltanto Tolstoj e Stendhal sono riusciti a raccontare la guerra in maniera appropriata. Di fronte a una miriade di sacrifici umani serviti a nulla, si rassegna a ripetere, con sbalordimento, il verso dell’Ecclesiaste: «il vento soffia a ponente, poi gira a levante, e sui suoi giri il vento ritorna». Confessa la difficoltà di congiungere i frammenti raccolti per ogni dove in una immagine unitaria: impossibile stabilire un nesso tra «tutte le stranezze che ho visto in giro per la Russia».

La parvenza di sistematicità appartiene in esclusiva alla follia o all’attività onirica. La coscienza di un singolo non demente né dormiente si limita a ghermire questa o quella frazione vagabonda di realtà, come un proiettore illumina un lembo di nuvola. «La vita fluisce in frammenti discontinui, appartenenti a sistemi diversi. È solo il nostro abito, non il nostro corpo, a tenere insieme istanti di vita isolati».
La rinuncia a stabilire il senso ultimo degli eventi storici di cui è stato testimone (e talvolta protagonista) conduce Šklovskij a una prosa refrattaria a qualsiasi andamento lineare, fatta di continui va e vieni, vorace di digressioni e cose «che non c’entrano». Inutile cercare una motivazione plausibile dei singoli episodi. I nessi sintattici e logici tra le frasi, soprattutto nella seconda parte del Viaggio, sono allentati al punto che il testo quasi non si tiene insieme, neanche graficamente: una frase autonoma per riga. Frasi che ambiscono all’aforisma o alla formula. A questa inconfondibile paratassi šklovskiana rende onore la traduzione di Mario Caramitti, che riduce al minimo le perdite semantiche e sintattiche. La traduzione precedente, di Maria Olsoufieva, apparsa nel 1966, aveva cercato, ma a torto, di lisciare la prosa spettinata di Šklovskij, espungendo le ripetizioni che le conferiscono una tonalità epica, a tratti quasi biblica.
L’ultima parte del Viaggio sentimentale si sofferma sulla vita quotidiana nella Pietrogrado assediata e affamata durante la guerra civile. L’autore racconta i giorni sommessi nella Casa delle arti, abitata da molti grandi del tempo, poeti, prosatori e teorici della letteratura. Rievoca con ammirazione le gesta di Gor’kij che, come un Noé artigianale, cerca di salvare la cultura russa dal diluvio universale.

Ambivalente verso i bolscevichi
A sentire Boris Ejchenbaum, amico e sodale di Šklovskij, la vita durante la rivoluzione e la guerra civile guadagnò una imprevista somiglianza con l’arte: saltate le diverse specie di routine, ogni percezione è deautomatizzata, ogni sapore è esperito con la forza della «prima volta». Si assiste a una nuova età della pietra, a una nuova invenzione della slitta. Proprio allora, nel 1919, con Osip Brik e Ejchenbaum, Šklovskij riesce a pubblicare su una carta sottilissima la miscellanea Poetika, pietra miliare del formalismo russo. Lavora assiduamente alla teoria del romanzo, insegna ai suoi allievi a leggere Don Chisciotte, «risuscita Sterne in Russia». Se non è riuscito a imporre la propria volontà al corso degli eventi storici, è certamente riuscito a cambiare per sempre la teoria letteraria.

Nel raccontare la morte di Blok «per disperazione», trapela l’amarezza di Šklovskij per una chance rivoluzionaria, a suo avviso disattesa. «Non c’è figura eminente che non abbia attraversato periodi di fede nella rivoluzione. Per qualche minuto anche nei bolscevichi». Quei bolscevichi con i quali ha un palese rapporto di ambivalenza: muove loro l’accusa di aver «voluto giocarsi il presente per vincere la storia», di pretendere di domare con l’organizzazione «l’anarchia della vita». Voltandosi indietro per contemplare una volta di più eventi terribili ed enigmatici, Šklovskij può dire con orgoglio di avere attraversato la rivoluzione «onestamente, senza annegare nessuno, senza calpestare nessuno, senza aver accettato compromessi spinto dalla fame».