Il luogo è oggi noto come Hampi, ed è un villaggio del Karnataka, nell’India meridionale, che ha meno di tremila abitanti; casette, piccoli alberghi piuttosto recenti, ristoranti semplici e negozi aperti sulla strada si concentrano intorno al grande tempio dedicato a Virupaksha, un aspetto di Shiva, uno degli dèi sommi dell’induismo, e della sua sposa qui chiamata Pampa.

Il principale gopura – torrione d’ingresso – del tempio svetta per più di cinquanta metri di altezza; è stato aggiunto nel XIX secolo, non è ben chiaro grazie a quale patrocinio. Intorno, il paesaggio è straordinario, addirittura surreale. Il fiume Tungabhadra scorre in ampie anse in mezzo a una distesa di colline formate da enormi massi rossi e ocra che sembrano essere stati levigati e ammonticchiati gli uni sugli altri di proposito, come da preistorici giganti, e stare in un equilibrio misterioso e un po’ inquietante.

FRA QUESTA PIETRA dal colore intenso e il verde brillante delle aree di pianura sono sparsi i resti dell’antica Vijayanagara, la «Città della Vittoria», che fra il XIV e il XVI secolo fu la grande capitale dell’India meridionale, e che poi, quasi in un attimo, fu cancellata dalla storia per trasformarsi in una distesa di rovine. Riscoperta, per così dire, nel corso dell’Ottocento, quando dilettanti e poi archeologi cominciano a documentare il luogo, la gloriosa città è oggi tornata in piena luce soprattutto grazie agli studi del Vijayanagara Research Project, inaugurato nel 1980. Ma non solo storia e natura rendono il luogo affascinante, perché si aggiunge anche la leggenda. Una tradizione locale molto viva associa infatti tutta quest’area alle avventure di Rama, narrate dal grande poema sanscrito del Ramayana e, nei secoli, da infinite altre popolarissime versioni. Qui si sarebbe trovata la mitica Kishkindha, il regno delle Scimmie, dove il principe Rama giunge con il fratello Lakshmana mentre è in cerca della sposa Sita, rapita dal demone Ravana, e stringe preziose alleanze. Il fantastico paesaggio di Hampi è sparso di luoghi nei quali Rama, che per l’induismo è un avatara («discesa») sulla terra del grande dio Vishnu, viene evocato e onorato secondo gli episodi della vicenda.

Tutto prende l’avvio nella prima metà del Trecento. L’India settentrionale è sotto il dominio di un sovrano islamico, il sultano di Delhi, che ha conquistato anche il Deccan e che sarebbe ben felice di dominare fin sull’estremo sud. Il successo è limitato, ma il tentativo suscita grandi rivolgimenti. A questo punto entrano in scena due fratelli, che portano i nomi simpaticamente simmetrici di Hukka e Bukka. Secondo fonti un po’ pasticciate, questi notevoli avventurieri sarebbero stati al servizio di regnanti hindu vinti dagli eserciti del Sultanato; sono fatti prigionieri e portati a Delhi, dove si convertono all’islam, vengono rispediti nel sud con incarichi ufficiali, e si ribellano tornando alla loro religione e fondando, nel 1336, un proprio regno.
Si stabiliscono dapprima sulla riva nord della Tungabhadra; dopo pochi anni però l’insediamento è spostato sull’altra sponda, ed ecco nascere la «Città della Vittoria», destinata a diventare uno dei maggiori centri dell’Asia. Già nei primi decenni del Quattrocento il suo dominio si estende su tutta la punta meridionale dell’India, da mare a mare.

LA CITTÀ SI ARRICCHISCE di templi e palazzi, nei suoi mercati vivacissimi si vende ogni sorta di cibo e di tessuti, vi si commerciano pietre preziose e perle, e i re si circondano di uno sfarzo immenso; musica, danza, letteratura ricevono sontuoso patrocinio. Dal luogo restano affascinati numerosi viaggiatori, quali gli italiani Niccolò de’ Conti e Ludovico di Varthema, e i portoghesi Domingo Paes e Fernão Nunes. Paes, che ci ha lasciato la descrizione più ampia, visita la città al tempo del suo massimo sovrano, Krishnadevaraya, che regna per vent’anni a partire dal 1509. Ma la fine è già vicina. Il colpo mortale sarà inferto nel 1565 dalla coalizione di un gruppo di stati a guida islamica sorti nel frattempo, i cosiddetti Sultanati del Deccan, con la battaglia di Talikota, un centinaio di chilometri più a nord. Il grande regno va in frantumi; la capitale è meticolosamente saccheggiata e viene abbandonata.

L’area urbana di Vijayanagara si estendeva per circa venticinque chilometri quadrati. I maggiori monumenti conservati comprendono templi, corredati da vasche e portici, disposti grossomodo lungo un’ampia fascia parallela al fiume, mentre a sud-ovest si trovano palazzi e strutture della cittadella reale; poco resta della zona residenziale, per via dei materiali più fragili. Quanto ai templi, ne esistono anche di anteriori alla fondazione della città, piccoli e graziosi; il sito era dunque già abitato, e non solo: quello che oggi è il culto di Shiva Virupaksha era verosimilmente già vivo ai tempi di Hukka e Bukka, ed è uno dei probabili motivi per la scelta del luogo. Aggiungiamo che forse Virupaksha ha sempre continuato ad attrarre pellegrini, come ne attrae oggi, mantenendo così un filo teso con il passato.

LA DEVOZIONE MAGGIORE dei re di Vijayanagara era però rivolta a Vishnu e al suo avatara Krishna, nei loro diversi aspetti e nomi, e questo è l’orientamento religioso degli altri santuari della città. Ora, i templi di Vijayanagara hanno uno stile speciale, «esteso», che si diffonde anche in tutto il regno per diventare, nei suoi sviluppi, una delle meraviglie dell’India del Sud. Copiata, per la verità, dai territori conquistati del Tamil Nadu, questa tipologia vuole grandi complessi con cinte di mura dotate di alti portali, appunto i gopura, al cui interno l’edificio principale è affiancato da padiglioni colonnati (le sale «dalle cento» o «dalle mille colonne»), dal santuario della dea consorte e da altri ancora.

Il tempio più bello di Hampi porta il nome di Vitthalasvami, il «Signore Vitthala», ed è rinomato per le splendide colonne e per una cappella monolitica a forma di carro. Ma forse il più emozionante è quello noto come Achyutaraya, oggi una solenne rovina in un’area selvatica orlata dalle creste dei massi.
Nelle aree della cittadella reale si trova, fra gli altri monumenti, una maestosa piattaforma piramidale istoriata che si suppone fosse usata per i riti di Mahanavami, il «Grande nono giorno», una ricorrenza hindu tuttora viva che prevede il culto di divinità femminili e, al termine, la celebrazione della vittoria di Rama su Ravana. Come sappiamo soprattutto dalla vivace relazione di Paes, ogni giorno della novena erano offerti in sacrificio in grande numero bufali e capre; si tenevano danze, musica, spettacoli, rassegne dell’esercito, e le concubine del re sfilavano tanto ingioiellate, ci viene detto, da faticare a reggersi in piedi. Altri edifici, quali le cosiddette Stalle degli Elefanti e il delizioso Lotus Mahal, con le loro arcate evocano invece l’architettura indo-islamica coeva.

QUESTO È UN INDIZIO importante fra altri dello stesso segno. Difatti, Vijayanagara e il suo regno sono stati spesso visti come un più o meno consapevole baluardo hindu contro il dilagare in terra indiana dell’islam; e certo hanno avuto un ruolo fondamentale nella preservazione della cultura dell’India meridionale. Oggi però gli studi hanno restituito il quadro di una metropoli cosmopolita e tollerante, che ospitava anche quartieri musulmani. La grande Città della Vittoria non è stata cancellata per motivi ideologici o religiosi, quanto piuttosto per la solita, eterna sete di ricchezza e di dominio.