La fine della prima, lunga parentesi post-talebana. Il sipario sul governo Karzai, inaugurato nel 2001 con l’occupazione militare. Le elezioni presidenziali che si tengono oggi nelle 34 province afghane segnano una fase di passaggio. Hamid Karzai, l’ex «sindaco di Kabul» che nell’ultimo anno e mezzo ha «strappato» con gli alleati americani, deve lasciare l’Arg, il palazzo presidenziale. La Costituzione gli impedisce un terzo mandato e interrompe 13 anni di potere e crescente influenza.

Il successore – che sia il suo uomo Zalmai Rassoul, il tecnocrate e già ministro delle Finanze Ashraf Ghani Ahmadzai, lo storico rivale dell’Alleanza del nord Abdullah Abdullah – gli porterà via il potere formale. Non quello informale, tessuto in anni di sapiente dosaggio di incarichi, prebende, ministeri, percentuali. Dietro di sé lascia un paese ancora fragile e sotto occupazione. E un governo screditato. Per la maggioranza degli afghani Karzai è il simbolo di un governo corrotto, ingiusto, forte con i deboli e debole con i forti. Subalterno agli stranieri. Per rifarsi un’immagine Karzai ha posticipato la firma del trattato bilaterale di sicurezza con gli Usa da cui dipende la presenza dei soldati stranieri anche dopo la fine del 2014, quando si concluderà la missione Isaf della Nato. Lascerà la patata bollente al prossimo presidente.

Degli 8 candidati rimasti in corsa, 7 hanno assicurato che firmeranno: gli americani potranno rimanere per altri dieci anni (si dice 8/12.000 uomini), la Nato potrà cominciare la nuova missione di addestramento delle forze afghane, Resolute Support, su cui l’Italia ha già dato ampie disponibilità. L’unico candidato non in linea è Qutbuddin Helal. Ma la sua è una candidatura di disturbo: rappresenta il partito radicale islamista Hezb-e-Islami di Gulbuddin Hekmatyar, che dopo anni di opposizione armata continua a volere il ritiro delle truppe straniere. Militarmente indebolito, l’Hezb-e-Islami prova la carta politica. Il principale partito di opposizione mantiene invece il punto: i Talebani considerano le elezioni una farsa, voluta e condizionata dagli americani.

Con un comunicato dell’Emirato islamico d’Afghanistan, hanno minacciato gli afghani al voto, i membri dell’Independent Electoral Commission che gestisce la macchina elettorale, soldati e poliziotti che vigileranno nei seggi (circa 100.000), i candidati. I barbuti fanno sul serio: nelle ultime due settimane ci sono state carneficine a Maimana, Jalalabad, Kunduz. A Kabul gli insorti sono riusciti a entrare al Serena Hotel: 8 i morti, compreso il giornalista afghano Sardar Ahmad, della France-Press. Ieri nella provincia orientale di Khost a finire sotto tiro sono state due giornaliste: Anja Niedringhaus, 48, fotografa tedesca dell’Ap è morta. La collega Kathy Gannon, giornalista con un’approfondita conoscenza dell’Afghanistan, è in gravi condizioni.

A sparargli, un uomo che indossava l’uniforme militare, il comandante Naqibullah. Si trovavano all’interno del compound militare nel distretto di Tani, fuori città, mentre seguivano un convoglio che trasportava materiali elettorali. L’obiettivo dell’attacco al Serena Hotel erano proprio gli osservatori internazionali. I membri dell’Osce e dell’Asian Foundation for Free Election (Anfrel) hanno fatto le valigie pochi giorni dopo. Rimane lo staff di monitoraggio della Ue. Molte aree rurali sono controllate dalle forze anti-governative (specie nelle province meridionali e orientali a prevalenza pashtun), e sarà impossibile controllare i 6.775 seggi elettorali (il 41% destinato alle donne): nessuno si aspetta elezioni regolari.

L’osservato speciale è Zalmai Rassoul, per 8 anni consigliere per la sicurezza nazionale di Karzai e dal 2010 al 2013 ministro degli Esteri. È il Medvedev di Karzai, che come Putin cerca un «ponte» per ripresentarsi al prossimo giro elettorale. Ashraf Ghani, che nel 2009 racimolò un misero 2,9%, macina consensi. Dalla sua ha il generale uzbeco Dostum, l’uomo da tre milioni di voti (sui 13 milioni circa di votanti stimati). Il tajiko Abdullah Abdullah si è scelto un vice pashtun come Mohammad Khan, legato all’ala politica dell’Hezb-e-Islami, per rafforzarsi nel sud/sud-est del paese e un secondo vice hazara, Mohammad Mohaqeq, per le zone centrali. Tutto lascia presagire un ballottaggio. Chiunque ne uscirà vincitore dovrà fare i conti con il ricatto dell’alleato a stelle e strisce: senza la firma del trattato bilaterale, via i 4 miliardi di dollari l’anno per finanziare le forze di sicurezza afghane (350.000 uomini); via i 16 miliardi di aiuti civili fino al 2016, stabiliti nella conferenza di Tokyo.

Il successore di Karzai firmerà quel trattato. L’Afghanistan resterà sotto il tallone degli occidentali, rinunciando a ritrovare il proprio spazio nell’orbita asiatica.