«È tempo che Hanoi smaltisca la sbornia, o questi saccheggiatori finiranno per far soffrire tutto il paese. La tolleranza di Hanoi non deve mettere alla prova – oltre il limite – la pazienza della Cina», ha scritto ieri il quotidiano in inglese del Partito comunista Global Times, a seguito delle proteste vietnamite contro le fabbriche di Pechino, prima ancora che si diffondessero le notizie circa la morte di 21 cinesi.

Toni duri, che confermano come la peggiore crisi tra Vietnam e Cina, da quando nel 1979 si confrontarono militarmente, sia in pieno svolgimento. E c’è chi ritiene che la nuova tensione tra i due paesi potrebbe portare a nuovi venti di guerra in Asia. Il confronto, infatti, non rientra solo nell’ambito delle relazioni tra Cina e Vietnam, ma si inserisce all’interno di strategie e alleanze, su cui incombe, manco a dirlo, la nuova strategia «pivot to Asia» di Obama, pronta a dare linfa a chiunque nell’area giudichi in modo sospettoso l’agire cinese. Pechino del resto si comporta in queste zone come nel giardino di casa, con poco rispetto delle esigenze dei paesi vicini e con molta arroganza, data la propria nuova forza militare ed economica.

Quanto accaduto in Vietnam, però, rischia di offrire ai falchi pechinesi che si annidano nell’esercito, una scusa fin troppo banale. I vietnamiti stanno assaltando da giorni fabbriche cinesi (spesso hanno finito per essere danneggiate anche aziende taiwanesi). Rimane il fatto che queste proteste, cui sono seguiti scontri, hanno provocato almeno 21 morti tra i cinesi.

La causa scatenante di questa crisi è stata una decisione cinese di alcuni giorni fa. Pechino ha deciso di sistemare una piattaforma petrolifera nei pressi delle Paracels, isolette contese da tempo con il Vietnam. Un’iniziativa che ha stupito, dato che solo alcuni mesi fa i due paesi avevano millantato accordi e armonia sui temi di mare conteso.

A seguito di questa presa di posizione cinese (che arriva dopo l’instaurazione della zona di difesa aera nel mar cinese del sud che aveva creato una crisi tra Cina, Stati uniti e Giappone), il Vietnam ha inviato la propria flotta in zona e secondo quanto sostenuto dai militari dell’esercito vietnamita, ci sarebbero stati anche contatti con navi cinesi. Ipotesi minimizzata da Pechino, che invece ha dato fuoco ai suoi editorialisti di punta sui quotidiani ufficiale.
Il che dimostra la probabilità che i toni saliranno ancora di più, sui quotidiani, mentre come accade spesso Pechino proverà una mediazione. Per quanto a rischio, nessuno crede davvero che a Pechino convenga un conflitto militare.

Dopo pochi giorni da questo presunto incidente in Vietnam è esplosa tutta la rabbia anti cinese, che cova da tempo, da sempre forse e che già un paio d’anni fa aveva creato imbarazzo tra i due paesi. Allora le proteste furono organizzate di fronte ad ambasciate e consolati e fu lo stesso governo vietnamita a interromperle, per non aumentare la tensione. Persone stazionarono per giorni di fronte alle sedi diplomatiche cinesi, ma nessuno ci andò di mezzo, tanto meno ci furono vittime e feriti.

Questa volta, invece, le autorità di Hanoi, non hanno posto veti. Vietnamiti hanno attacco le fabbriche supposte di proprietà cinese, assaltando i lavoratori e interrompendo la produzione di alcune note marche dell’abbigliamento sportivo internazionale.

«Temo che un capitolo oscuro delle relazioni sino-vietnamiti si stia scrivendo in questo momento» ha detto Ian Storey, un esperto di mar cinese meridionale presso l’Istituto di Studi sul sudest asiatico di Singapore alla Reuters. «E poiché la Cina vuole mantenere questa piattaforma petrolifera anche in futuro, queste proteste proseguiranno e non potranno far altro che conquistare le prime pagine dei quotidiani».

Tran Van Nam, vice presidente del comitato popolare del Duong Binh, ha detto che circa 6.000 lavoratori hanno inizialmente organizzato proteste pacifiche, ma l’ordine si sarebbe infranto quando i contestarori sono diventati 20 mila. I cancelli di molte fabbriche sono stati rotti e i rivoltosi hanno incendiato almeno 15 capannoni. «Questo ha causato centinaia di migliaia di dollari in danni e migliaia di lavoratori hanno perso il lavoro», ha raccontato alla Reuters, via telefono Nam. «Chiediamo a tutti di mantenere la calma, la moderazione e avere fiducia nella leadership del partito e dello Stato».

F.Y. Hong, presidente di Taiwan Formosa Industries Corp , una delle aziende ad essere stata attaccata, ha detto che circa 300 rivoltosi hanno saccheggiato televisori, computer e oggetti personali dei lavoratori. «A causa del numero limitato di agenti, ha aggiunto, la polizia non è riuscita a fermare i saccheggiatori. La situazione era simile a un paese dove non ci sono autorità a proteggere il proprio popolo».