«Sembra che il Vietnam ami il mercato ma in realtà è qualcosa di cui ha ancora paura», sentenzia Nguyen Dinh Cung, dell’Istituto centrale per la gestione economica (Ciem), un ente di Stato per lo sviluppo dell’economia.

In un forum di due giorni, il Ciem ha fustigato la lentezza dello sviluppo locale: il ministro per gli investimenti e la pianificazione (quel che resta di socialismo nell’economia del Vietnam) ha detto – riferisce la stampa – che i conti del 2017 mostreranno un «impressionante» crescita del 6,8% che nei prossimi 15-20 anni si assesterà su un aumento del Pil dell’8% e una crescita della produttività del 7%.

Cosa che, aggiunge il ministro Nguyen Chi Dung, si può ottenere solo con un mercato libero che il Paese ancora non ha: «Il Vietnam – dice Dung – non solo non è ancora riuscito a ridurre il settore statale e a espandere quello privato ma non riesce ancora a integrare l’economia informale in quella formale».

Esiste anche la preoccupazione che i nuovi lavori caratterizzati da tecnologia e robotizzazione riducano l’occupazione, timore forte – questo si tipicamente socialista – in un Paese che, davvero significativo, vanta un tasso di disoccupazione solamente all’1%. Ma sui rischi di un’eccessiva dipendenza dagli investimenti esteri (circa 28 miliardi di dollari nel 2017) si dice poco.

Americani, giapponesi, coreani e cinesi la fanno da padrone in un’economia ancora profondamente fragile e agricola (su 95 milioni l’80% lavora nel primario) dove il partito unico si erge a baluardo di uno «sviluppo sostenibile» (era il titolo del forum). Una parola che non sembra esattamente coniugarsi coi campi da golf.