La smettono mai i fantasmi di sanguinare, di piangere, di ritornare?». Per chi ha vissuto la violenza, lo spossessamento e il potere alienante del colonialismo la risposta non può che essere negativa, sostiene con efficacia Viet Thanh Nguyen nel suo secondo, attesissimo romanzo, Il militante (traduzione di Luca Briasco, Neri Pozza, pp. 432, € 19,00), dove riprende il filo del racconto interrotto alla fine del Simpatizzante, che gli è valso il Pulitzer nel 2016 e molti altri riconoscimenti. Nato in Vietnam durante la guerra, dopo la fuga della famiglia nel 1975, Nguyen ha trascorso l’infanzia da rifugiato negli Stati Uniti prima di ricongiungersi ai genitori che, nel frattempo, avevano aperto un negozio di alimentari vietnamiti in California. Oggi insegna letteratura americana e studi etnici presso la University of Southern California di Los Angeles, dove si occupa prevalentemente dell’immaginario del Vietnam nella cultura popolare.

All’inizio del Militante, che fa ancora una volta i conti con il passato coloniale e i suoi indelebili effetti sul presente, il fantasma che sanguina, piange e ritorna è quello del protagonista del Simpatizzante: pur affermando di essere morto, riprende a scrivere la propria storia, usando come inchiostro il liquido scuro che cola dai due buchi sulla sua testa. Se sia veramente morto non è per la verità molto chiaro: nella sua vaga natura di fantasma impersona la convinta spia comunista di padre francese e madre vietnamita che nel Simpatizzante si era infiltrata nel mondo di Hollywood.

Un solo personaggio, anzi no
Dopo essere stato torturato dall’ex miglior amico e aver trascorso due anni in un campo di rieducazione per via della sua «capacità di simpatizzare con i veri nemici del comunismo», nel Militante lo ritroviamo ancora una volta nella condizione di rifugiato. È il 1981 e insieme al fratello di sangue Bon, ignaro del suo passato di spia, è diretto a Parigi, la capitale dell’impero che ha colonizzato il Vietnam, ma anche il paese di suo padre. Proprio in questa città, che odia pur sentendosene affascinato, viene travolto in discussioni con intellettuali sessantottini, malavitosi cinesi, prostitute, ma si impegna anche in spietate autocritiche e viene coinvolto in una sparatoria, mentre si dedica allo spaccio e al consumo di droga.

Sebbene l’identità del protagonista dei due romanzi sia la stessa, non perciò abbiamo davanti un identico personaggio. Se nel Simpatizzante il protagonista era doppio («un uomo con due facce e due menti»), nel Militante evolve e si complica scindendosi ulteriormente, tanto che si fatica a chiamarlo individuo. È piuttosto il suo opposto, un dividuo sempre molteplice, non la «metà di un qualcosa» ma «il doppio di tutto». La divisione interna del soggetto, che nel primo romanzo era soprattutto ideologica e culturale, si metastatizza nel secondo fino a intaccare persino la lingua, anch’essa sdoppiata. L’ambientazione parigina genera nel narratore reiterate riflessioni sul suo rifiuto del francese, la lingua imposta «da chi ci aveva schiavizzati e stuprati», mentre l’inglese lo padroneggia «senza ambivalenze, perché… non aveva mai dominato noi».

Nell’ottima traduzione italiana di Luca Briasco, la dialettica fra inglese e francese ovviamente deve arrivare a una resa: l’italiano maschera anche l’ironia del titolo originale, The Committed, che a dispetto di quando afferma il protagonista è espressione piuttosto ambivalente: in mancanza di un contesto, infatti, non è chiaro se indichi qualcuno ostinatamente impegnato in una causa, un militante appunto, oppure un paziente psichiatrico, a riprova del fatto che fuori dalla propria lingua il nativo è comunque alienato dalla lingua del neocolonialismo.
Non sono solo le lingue da cui si sente dominato, tuttavia, a rendersi responsabili della scissione del protagonista: i riverberi della sua crisi soggettiva arrivano a minare persino la sua consistenza pronominale: «Non sono solo io, sono anche te. O meglio, noi». Con il procedere della storia, la focalizzazione interna cambia repentinamente e si fa allucinata. Il narratore passa dal racconto in prima persona al racconto di un sé interpellato come «tu» o come «noi».

I sottotitoli delle sei parti in cui il romanzo è suddiviso – «Noi», «Me», «Me stesso», «Io», «Voi», «Tu» – separate al centro da una sorta di faglia o barra lacaniana rappresentata dalla parola «fine», ripetuta anche in francese e vietnamita, confermano che proprio l’inconsistenza soggettiva del protagonista è ciò che, paradossalmente, sorregge la scrittura del romanzo. Allo stesso tempo, questo uomo che si aliena da sé fino a farsi alterità collettiva suggerisce come la crisi cui Nguyen presta la sua voce non riguardi solo un personaggio letterario, o un generico soggetto postcoloniale, ma si estenda a una intera cultura, quella che ha originato la violenza alienante dell’imperialismo.

Forse anche in ragione di questo, le pagine del Militante sono dense – a tratti a discapito del ritmo narrativo – di riferimenti a quel pensiero critico che va da Marx a Benjamin, da Fanon, a Césaire, da Kristeva a Cixous. Il disperato tentativo del protagonista di arrivare a una sintesi nella dialettica tra comunismo e capitalismo, Vietnam e Francia, colonizzatori e colonizzati non riguarda solo la sua persona, ma anche il disorientamento e il senso di impotenza di tutti coloro che – come Nguyen – fanno parte del mondo intellettuale. Pur riflettendo su di sé incessantemente, infatti, il protagonista non sembra mai raggiungere la sicurezza cartesiana della propria consistenza. Questo senso di devastante insicurezza che pervade il romanzo sembra parlare molto più del presente che della realtà dei primi anni Ottanta, fragorosi a sufficienza da nascondere, seppure per poco, il suono lugubre delle crepe che s’aprivano alle fondamenta della cultura occidentale.

È sorprendente come, a dispetto del precipizio nichilista sul quale ci affaccia il suo protagonista, Nguyen sia riuscito a costruire una storia avvincente, ricca di colpi di scena e soprattutto graziata da abbondanti immissioni di ironia, anche nei momenti di maggiore tensione.

Un motore di empatia
La sua abilità principale risiede però nell’aver creato un personaggio «senza un nome, senza uno stato e senza un io», capace tuttavia di generare una profonda empatia nel lettore. Proprio il ricorso alla dimensione empatica è infatti secondo lo scrittore americano l’unico modo per evitare che l’odio e la violenza del passato si riproducano nel presente. La rivoluzione, infatti, nelle conclusioni cui arriva il protagonista del romanzo, non sta nello schierarsi con chi ha già qualcosa e vuole tutto, ma con «coloro che non hanno nulla e ai quali si nega perfino la tranquillità del nulla». A noi decidere se credere alle parole di un fantasma.