Adolf Loos scrisse che se di una civiltà scomparsa non fosse rimasto altro che un bottone, dalla sua forma si sarebbe potuto risalire «ai suoi costumi e alla sua religione, alla sua arte e alla sua vita spirituale». Chi visita la mostra Il vetro degli Architetti Vienna 1900-1937, in collaborazione con il viennese Museum für Angewandte Kunst, alla Fondazione Cini di Venezia (fino al 31 luglio), coglie perfettamente il significato della tesi loosiana. Anche dall’oggetto in vetro, alla pari dell’opera d’arte, è possibile risalire, seguendo le sue «trasformazioni formali», al gusto e alla sensibilità di un’epoca: nel nostro caso i profondi cambiamenti vissuti dalla Vienna fin-de-siècle. Si potrebbe meglio dire che a differenza delle altre mostre promosse da «Le Stanze del Vetro», in questa «se ci è negato di riconoscere lo spirito dei tempi», come annotò con acume Hugo von Hofmannsthal, «ci è dato in compenso di sentirlo».

È ciò che sempre accade quando si entra nel «regno dell’arte». Perché è dell’arte che parliamo quando abbiamo davanti calici, vasi e vassoi delle manifatture viennesi del vetro, anche se già all’epoca Loos inorridiva alla vista «dei boccali di birra che possono soltanto essere esposti in una vetrina»: per lui un’autentica «barbarie» giacché mai un oggetto d’uso poteva essere confuso con l’arte. Oggi, forse, ci appaiono candide invettive quelle dell’architetto viennese, visto il compiersi ineluttabile di ciò che allora Dagobert Frey raccontò allo stato nascente: «l’architettura è oggetto di design e l’oggetto di design è architettura».

Con quest’affermazione si spiega non solo il titolo della mostra veneziana, ma anche l’altra questione centrale della modernità, ossia il mutamento dell’architettura a stile, a pura forma pervasiva nella casa come nella città, tesa a imporsi quale canone, magari internazionale, attraverso la pubblicità che gli procurano le riviste specializzate e le mostre «universali». Siamo solo agli inizi, ma da allora il confronto ruoterà sempre sull’eterna dicotomia dei valori e significati che svolgono i saperi e le tecniche che si misurano con la costruzione dello spazio e la fabbricazione dei nostri oggetti d’uso. In questa direzione si coglie bene, nell’esposizione, l’aspetto più profondo e radicale del conflitto tra arte e artigianato, che si manifesta nel modo più evidente proprio nella capitale mitteleuropea nei primi decenni del secolo scorso. Ricadono ancora nell’artigianato artistico i vasi della prima sala, dai suadenti motivi art nouveau, di Susanne Loetz, Hilde Lampl o Adolf Beckert. Il vetro è soffiato a stampo e forgiato, è opaco, iridescente a macchie, ed è fabbricato da artigiani boemi o moravi dalla sorprendente manualità. A questi artigiani si rivolge una nuova schiera di artisti formati nelle scuole di arti e mestieri viennesi (Wiener Kunstgewerbeschule) o di altre località del regio impero (Fachschulen), affidando loro disegni che più nulla hanno a che fare con il gusto storicista ottocentesco. Un solo vaso è trasparente, oblungo e incastrato in un supporto in legno: è di Josef Hoffmann, anche se non quello riportato in catalogo (Skira). Hoffmann con Koloman Moser sono gli artefici della svolta modernista nell’ambito delle arti applicate viennesi quanto, negli stessi anni, per la pittura e l’architettura lo saranno Klimt con la Secession e Otto Wagner con la sua Wagnerschule. Nel 1903 Hoffmann e Moser fondano la Wiener Werkstätte, una «officina» sul modello della londinese Guild of Handicraft di Charles Ashbee. La loro missione, sostenuta dall’industriale Fritz Waerndorfer, è quella di riformare le arti decorative austriache e realizzare prodotti rivolti al ceto borghese, salvaguardando il lavoro artigianale. Gli artisti che vi si raccolgono intorno – Otto Prutscher, Michael Powolny, Otto Czeshka, Joseph Maria Olbrich, Leopold Bauer – nel loro programma dichiarano: «noi non possiamo né vogliamo competere con la mediocrità».

Che siano riusciti nel loro intento lo dimostrano i vetri esposti nelle sale successive. Alla loro vista è evidente quanto già Rossana Bossaglia fece notare in occasione della mostra Le arti a Vienna (Venezia, 1984), ovvero che la «fisionomia modernista» e quella «Secession per antonomasia», è né monacense né berlinese, ma viennese. Tranne Loetz, affezionata all’iridescenza del vetro, o Beckert, che resta fedele a raffinati motivi fitomorfici su paste coloratissime opaline o smerigliate, per gli altri (Moser, Olbrich) la scelta è verso brocche, bicchieri e calici di vetro incolori o appena colorati in una sola parte. L’infinita varietà di forme e decorazioni che si ammirano in un allestimento espositivo sempre impeccabile non è casuale, ma risponde a un preciso programma che persegue lo stile individuale. «Non stile di scuola, stile di corporazione, stile di fabbrica, neanche uno Zeitstil – scriverà Ludwig Hevesi, il critico a loro più vicino – ma uno stile della personalità».

Per meglio comprendere il significato che il vetro assume nella poetica degli architetti della Finis Austriae, sarebbe stato opportuno che il curatore, Rainald Franz, avesse esposto alle pareti qualche fotografia d’interni o di architetture alle quali quei vetri erano destinati e non solo le immagini delle sale allestite per il loro commercio, importanti ma non essenziali; ad esempio: l’interieur di palazzo Stoclet a Bruxelles (1905-’11), il capolavoro di Hoffmann, oppure una delle sue residenze della Villekolonie (1901-’02), sulla collina viennese di Hohe Warte, o ancora una qualsiasi sala da pranzo o soggiorno di Otto Prutscher (Villa Flemich, Jägendorf, 1914). Le riviste dell’epoca come «Dekorative Kunst», «Innen-Dekoration» o «The Studio» ne offrono una vasta scelta, e così si sarebbe compreso meglio la funzione decorativa del vetro nel contesto dell’abitare borghese. A riguardo soccorre in extremis, al termine del percorso espositivo, la ricostruzione (parziale) del Boudoir d’une grande vedette, che nel 1937 Hoffmann disegna per il padiglione austriaco (Oswald Haerdl) all’Esposizione Universale di Parigi. La boiserie in legno intarsiato verniciato d’argento con il pavimento a specchi nel quale tutto si riflette, dal mobilio al discreto lampadario della ditta Lobmeyer, produce un effetto straniante, quasi surreale, in chi l’osserva. Una distanza siderale separa ormai questo spazio intimo e domestico dai valori del semplice-utile-naturale fondanti i primi movimenti in difesa delle arti decorative «fatte a mano». Il pensiero va alla «platonica» Casa di Vetro di Bruno Taut alla fiera del Deutscher Werkbund di Colonia del 1914: il monumento multicolore di quella «civiltà del vetro» che per Paul Scheerbart doveva operare «una completa trasformazione dell’uomo» e che la Grande Guerra arrestò tragicamente.

A Colonia la Glaskultur può contare sull’eccellenza raggiunta dai maestri vetrai (boemi) e dagli artisti-architetti (viennesi) che per creatività e tecnica non temono confronti. La loro attività, pur ridotta, prosegue anche nel periodo bellico con vetri «di propaganda», come i bicchieri con incisi o serigrafati motivi patriottici, ma la novità è l’adesione promossa da Hoffmann al Werkbund tedesco. L’Österreichischer Werkbund, però, si mostra subito un’associazione inadeguata per Vienna, che «doveva conservare – come bene ha chiarito Friedrich Achleitner – quella sua immagine d’inconfondibile raffinatezza e signorilità da scacciare il mondo dell’industria e la sua prassi».

Cosa, infatti, dire davanti ai vetri di Dagobert Peche, Powolny, Carl Shappel, Karl Massanetz e alla varietà di quelli prodotti dagli anonimi maestri dalla Fachschule di Haida, se non constatare una forza che resiste alla serialità industriale, verso «l’amore per l’oggetto unico e fantasioso, canzonatura e rovesciamento del reale»? Nell’ambiguità delle relazioni con i processi della produzione di massa si consuma l’ultima stagione della Glaskultur viennese, coincidente con la decadenza della borghesia danubiana ben rappresentata dal boudoir hoffmanniano. Tra le due guerre la fabbricazione dei vetri si divide tra quelli di esportazione, «alla maniera tedesca», di classica sobrietà, e quelli fastosi di Emanuel Josef Margold, intagliati e bicromi a più strati, di Prutscher (serie Lapislazzuli), di Lotte Fink o Ena Rottenberg decorati con figure. Si avvera, però, ciò che non si volle vedere e che tuttavia era già scritto nel programma della Wiener Werkstätte già nel 1903: «la macchina si sostituisce alla mano, come l’uomo d’affari si sostituisce all’artigiano».

Solo Loos comprese il mutevole spirito-del-tempo e l’interpretò rifiutando le «nostalgiche resistenze», come mostra il suo servizio di bicchieri n. 248 (1931) per Lobmayer: cilindri di varia dimensione, lineari, trasparenti, impreziositi solo alla base da una griglia di tagli. Loos non vide scomparire gli «artisti delle arti applicate», i “superflui” come lui li chiamava. Il mercato ha invece dimostrato di averne sempre bisogno e ancora oggi, infatti, ne operano di numerosi.