Mercoledì Benyamin Netanyahu, dopo aver appreso della sua incriminazione per corruzione, frode e abuso d’ufficio, aveva sparato zero sulla magistratura e la polizia, denunciato il «complotto» dei media e della sinistra e persino alluso a un «golpe». Ieri ha fatto retromarcia, in parte, per attenuare l’attacco senza precedenti rivolto da un premier alle istituzioni israeliane. «Tutto questo processo sarà alla fine deciso in tribunale. Accetteremo la decisione e su questo non c’è dubbio. Abbiamo sempre agito, dall’inizio alla fine, in accordo con la legge», ha scritto su Facebook. Quindi ha indicato la direzione agli israeliani: le elezioni, le terze in un anno. «In definitiva chi deciderà chi sarà il primo ministro siete voi cittadini…Abbiamo davanti a noi opportunità storiche come l’annessione (a Israele) della Valle del Giordano, il rafforzamento della nostra sicurezza, la costruzione di alleanze con i nostri vicini e molte altre cose da non perdere», ha proclamato come se fosse già in campagna elettorale.

Netanyahu non si dimette – la legge glielo impone solo se colpevole al terzo grado di giudizio – e punta a tenere duro fino al nuovo voto, praticamente certo. Nessuno crede che un membro della Knesset sia in grado, entro l’11 dicembre, di formare la maggioranza di governo mancata prima da Netanyahu e poi dal suo avversario Benny Gantz, leader del partito centrista Blu Bianco. E non è detto che Netanyahu non riesca nel frattempo ad ottenere l’immunità dal parlamento. Inoltre se vincerà le votazioni, presentandosi agli elettori come «martire», e riuscirà a formare un governo, avrà ancora più forza per affrontare un processo che durerà due forse tre anni.

Dovrà però combattere battaglie all’ultimo sangue con i suoi avversari politici. Gantz e il suo partito ieri hanno chiesto formalmente le sue dimissioni da tutti i suoi incarichi ministeriali che detiene. E tutti i partiti del centrosinistra insistono affinché lasci subito la poltrona di primo ministro. Si prevede inoltre che ong e associazioni, oltre ai partiti di opposizione, chiederanno alla Corte Suprema di imporre le dimissioni al primo premier in carica incriminato in via definitiva.

Le insidie maggiori per Netanyahu tuttavia potrebbero arrivare proprio dal suo partito, il Likud, e dal blocco delle destre che guida da dieci anni. Dopo l’annuncio dell’incriminazione, quasi tutti i dirigenti e ministri del Likud si sono affannati a proclamare l’innocenza di Netanyahu e a mostrarsi vicini al loro capo. E altrettanto hanno fatto un po’ tutti i leader degli altri partiti di destra. Questo atto di fedeltà non può nascondere le fibrillazioni interne. Il rivale più accanito di Netanyahu nel Likud, Gideon Saar, che due giorni fa aveva chiesto le primarie prima del voto, ieri ha apertamente sfidato il capo del partito assicurando di essere in grado di assemblare una coalizione di governo. Un altro pezzo da novanta, il ministro degli esteri Israel Katz, è rimasto per diverse ore in silenzio prima di esprimere solidarietà al premier incriminato.

«Sono convinto che Netanyahu debba guardarsi da possibili colpi bassi dei suoi compagni di partito più che dalle iniziative politiche e legali che avvierà il centrosinistra», ci diceva ieri l’analista Eytan Gilboa, del Centro Besa di Tel Aviv, «il primo ministro farà il possibile per tenere compatto il Likud e il blocco delle destre ma non è detto che ci riesca. In questa situazione una piccola fessura può trasformarsi in una lacerazione ampia». Secondo Gilboa alcuni dirigenti e quadri del Likud «stanno alla finestra cercando di capire cosa accadrà nelle prossime settimane. Conosco personalmente diversi membri (del Likud) favorevoli all’uscita di scena di Netanyahu ma non possono dirlo perché sarebbero accusati di tradimento dai fedelissimi del premier. Ma in politica, si sa, tutto può cambiare in un momento».