Avevo vent’anni, abitavo nell’osteria di famiglia. Quella sera mi stavo lavando le mani nel bagno. Mia madre mi aveva appena messo sulla tavola un piatto di broccoli. Mentre la terra ancora tremava andai verso la casa di mio nonno. Ricordo più di tutto l’oscillare dei lampioni. E ricordo che lungo una piccola discesa un signore con due stampelle sembrava volare. Finita la scossa mi avviai verso la piazza. Ancora non sapevo niente del disastro nei paesi vicini, ma sentivo che era successa una cosa che mi avrebbe cambiato la vita. Ricordo qualche mese dopo che a Teora un uomo mi parlava commosso davanti alle rovine del suo paese e mi indicava il luogo dove era il bar, il sarto, il fruttivendolo. Io mi rimproveravo di non essere mai stato a Teora e di non poterla mai più vedere come era prima. Forse quel giorno è nata la mia passione di andare nei paesi, andare a fargli visita come si va a trovare un vecchio zio in ospedale. E mentre lo salutiamo a noi e a lui vengono le lacrime agli occhi. Ogni volta può essere l’ultima volta che ci vediamo.

Arrivai con un mio amico a Sant’Angelo dei lombardi verso le dieci di sera e per la prima volta nella mia vita vidi dei cadaveri. Erano stesi su un marciapiede, pancia a terra, non erano coperti da un lenzuolo, ma dalla polvere. C’erano persone che scavavano in cima alle case cadute. Si scavava dove si sentiva una voce. E c’era chi scavava anche dove non si sentiva niente. Fu una giornata caldissima. Io la mattina avevo giocato a tennis a torso nudo con l’avvocato Arminio. Non potevo immaginare quello che sarebbe successo la sera e neppure che l’avvocato si sarebbe suicidato molti anni dopo. Quel giorno ognuno avrà fatto le sue cose. Al cinema di Lioni, che ancora non era una multisala, davano un film con Mario Merola. A Roma il presidente del consiglio aspettava l’arrivo del primo ministro inglese. L’Avellino vinse 4-2 con l’Ascoli. Quell’anno il festival di Sanremo fu vinto da Toto Cutugno. Ad agosto ci fu la strage di Bologna, a dicembre venne ucciso John Lennon.

La sera del terremoto io stavo bene. Mi piaceva tutta quella gente per strada, tutti che si guardavano come se ognuno fosse una cosa preziosa. Quando si sono messi a dormire nelle macchine, mi sono fatto un giro, li ho benedetti uno per uno. Al telegiornale delle 20 si fa cenno a una scossa di terremoto, ma si fa fatica a capire la zona di provenienza e l’entità. Un’ora dopo si parla della Basilicata, il primo paese che viene nominato è Balvano. Qui è caduta una chiesa e sono morte tante persone. A quell’ora dall’Irpinia scena muta. A quel tempo c’era la Sip e le sue linee sono fuori uso. E ovviamente è andata via la luce. Il cuore del terremoto è un buco nero.

Il lunedì mattina l’elicottero mostra le rovine. È come se interi paesi fossero stati schiacciati dal dito di un gigante. Il terremoto ha colpito un pezzo d’Italia che era conosciuto solo da chi lo abitava. Nessuno a Roma e a Milano aveva mai sentito parlare di Santomenna, Laviano, Castelnuovo di Conza. Eccoli i paesi, ognuno con la sua forma: uno era una nave ferma da secoli sulla collina, un altro era ignaro di essere nel cuore della crepa. L’Italia trema, ogni tanto. E ogni volta sembra una sorpresa, un evento inaudito, un disastro accresciuto dalla nostra impreparazione. Da questo punto di vista il terremoto che colpì la provincia di Avellino e quelle vicine ne fu l’emblema. Molte abitazioni non erano antisismiche. Non lo erano le case vecchie e non lo erano molte delle case nuove, fatte con un cemento disonesto, disarmato.

La terra cominciò a tremare quando mancavano sette secondi alle 19.35. In una stanza dell’Osservatorio di Monteporzio Catone l’ago del sismografo accelera il suo ritmo, ma non c’è nessuno a dare l’allarme. La grande scossa durò novanta secondi e colpì un’area vasta quanto il Belgio. Alla fine ci furono 2914 morti, ottomila feriti, trecentomila sfollati. Il boato è impressionante mentre radio Alfa di Avellino manda in onda una musica popolare. Magnitudo di 6.9 nella scala Richter, una forza enorme, pari a quella di 15 bombe atomiche, la forza accumulata nella frizione tra la placca africana e quella europea.

Noi guardiamo case, strade, lampioni, asfalto, ma dovremmo sempre fare attenzione a quello che c’è sotto. La ragnatela taciturna delle faglie all’improvviso lancia il suo urlo. Il terremoto si sentì dalla Sicilia al Veneto, fu inavvertita solo a Nord Ovest. L’Appennino e le Alpi sono la nostra oreficeria geologica, creazioni bizzarre, gioielli che percepiamo separati, ma che vengono dalla stessa mano: i sassi della Sila hanno la stessa radice dei sassi del Monviso. L’Etna e il Vesuvio sono sillabe isolate della stessa lingua di fuoco che ci percorre nel profondo.