Quando Michael Jackson nel 1996 girò in una favela di Rio They Don’t Care About Us, con la regia di Spike Lee, forse aveva in mente di attirare l’attenzione del mondo sul degrado della metropoli brasiliana, ma il luogo della miseria più totale – utilizzato da sfondo per la popstar multimiliardaria, capricciosa e con acuti problemi di identità etnico-sessuale – divenne immediatamente qualcosa di fasullo. Così come ipocrita agli occhi dello spettatore che conosceva tutti i retroscena dell’operazione, appariva la preoccupazione sociale di Jackson. La favela si tinge di glamour, ma questo al di là del videoclip di Lee. A trionfare non è soltanto la star e i valori che le sono connessi, ma un’idea di videoclip che – per quanto abbia velleità creative –, serve soltanto a promuovere il disco, raccontando la solita storiellina della musica che allevia le sofferenze del mondo. Jackson è talmente distante da ciò che lo circonda, che avrebbe potuto benissimo essere inserito grazie a un effetto speciale.

Riveduto e (s)corretto

Il dibattito sulla funzione “politica” della musica è probabilmente vecchio quanto la musica stessa. Con la nascita del videoclip il discorso è ritornato attuale, poiché la potenza delle immagini inevitabilmente amplifica il contenuto delle parole. L’eccessiva estetizzazione del mezzo è, quasi sempre, proporzionale alla perdita del suo carattere etico, come denunciava Daney negli anni ’80, a proposito dell’operazione filantropica di We Are The World, dove l’opportunismo commerciale delle star (capitanate ancora una volta da Jackson) viene camuffato dai buoni sentimenti. La (cattiva) coscienza degli occidentali è rimossa mediante una perversa “seduzione estetica”: «I cantanti ricchi» – scriveva il critico francese – «mescolavano la loro immagine a quella degli affamati. In realtà prendevano il loro posto, li rimpiazzavano, li cancellavano. Fondendo e dissolvendo star e scheletri in un colpo d’occhio figurativo in cui due immagini cercavano di diventare una sola, il clip eseguiva con eleganza questa comunione elettronica tra Nord e Sud».

La discrepanza tra etica ed estetica è causata anche dall’inguaribile spirito di colonizzazione che, in questa nostra epoca, continua ad essere ben incarnato dal mercato della musica. Freedom (1984) dei Wham!, più che la testimonianza del tour cinese del popolare duo inglese, poteva all’epoca tranquillamente essere letto come l’atto di conquista di un mercato fino allora precluso agli occidentali. Le classiche immagini turistiche con George Michael e Andrew Ridgeley sulla Grande muraglia, mescolate a frammenti del concerto tenuto a Pechino e a scene del pubblico in deliquio, ci restituiscono quello che potremmo definire un travel-clip, ovvero un video musicale basato soprattutto sull’ambientazione esotica, ma sono anche un manifesto propagandistico.

Facciamo un esempio nostrano: Il mio nome è mai più (1999) del trio Ligabue-Jovanotti-Pelù, canzone nata durante la guerra in Kosovo e sull’onda emotiva dei bombardamenti della Nato, considerata all’epoca dai fautori della cosiddetta “guerra giusta” un’operazione pericolosamente pacifista nei confronti del tiranno Milosevic. In realtà lo scopo era quello concreto di aiutare l’associazione Emergency di Gino Strada. Il video diretto dal premio oscar Gabriele Salvatores risente dello stile hi-tech adottato dal regista da Nirvana in poi e basato, come solitamente accade per clip di questo tenore, su materiali d’archivio, filmati tratti da telegiornali, con immagini anche cruente delle vittime di guerra. Questi frammenti drammatici, trasmessi su schermi televisivi che invadono le strade e i locali di una metropoli occidentale, richiamano giocoforza l’attenzione della gente che vive la sua vita con tranquilla indifferenza. Per quanto ben confezionato, la messa in scena resta piuttosto scontata, ma il messaggio almeno è preciso: ancora una volta dopo la guerra del Golfo, ecco un nuovo conflitto costruito a uso e consumo dei media.

Al di là delle buone (o cattive o finte) intenzioni, è il risultato ciò che conta. Quando perciò l’estetica dettata da ragioni musicali e di marketing prevale sul contenuto e ne deforma il messaggio, ci si può trovare interdetti di fronte a video come They Dance Alone (1993), omaggio di Sting ai desaparecidos argentini, diretto da Dominic Sena 54. L’accoppiata tra le immagini glamour di figure femminili che danzano al ralenti in una scenografia desertica e foto in bianco e nero delle vittime di Pinochet, francamente stona. Il visivo, in questo come in altri mille casi, traduce la stucchevolezza insita nel brano musicale. Il video allora non può che peggiorare le cose, renderle ancora più finte, creare un divario maggiore tra rievocazione onirico-poetica di eventi e la necessità che questi stessi avvenimenti siano presentati all’opinione pubblica in tutta la loro drammatica autenticità.

Il suono della rivolta

Difficile dire se la strada migliore sia stata quella scelta da Oliviero Toscani per le campagne pubblicitarie Benetton degli anni ’80-’90 o se, per restare nel campo del video musicale, sia stata più rivoluzionaria l’estetica “da guerriglia” di Radio Clash (1981, regia: Don Letts, autore di quasi tutti i clip del gruppo inglese), dove le riprese della band in concerto si mescolano alle immagini televisive di repressioni poliziesche o in cui assistiamo alla rivolta concreta dei Clash che, all’inizio del video, escono da un market dopo aver compiuto un classico esproprio proletario. Esiste comunque in alcuni gruppi ancora politicamente motivati, un atteggiamento di resistenza alle regole di mercato, che si riflette anche nelle scelte videomusicali.

La musica rap e hip-hop dalla fine degli anni ’80 ha cambiato parecchio le cose. E, a cominciare da alcuni artisti afroamericani, la protesta sociale è stata messa al centro di numerosi video. Naturalmente parliamo di quei rapper più politicizzati che ambientano le loro storie nelle banlieu degradate, nei quartieri dove si avverte la repressione poliziesca, in cui si vive una perenne lotta di classe, una dimensione di scontro razziale. […] I video politici di hip-hop sono naturalmente di casa un po’ ovunque, non solo negli Usa o in Francia, anche nel nostro paese oppure in Sudamerica: pensiamo al duo portoricano Calle 13, i cui videoclip, tuttavia, conciliano la cruda violenza con un certo manierismo della messa in scena, come in due lavori tratti dall’album Multi Viral, ovvero Adentro e El aguante, entrambi diretti nel 2014 da Kacho López Mari.

Di recente anche in Italia è sorta una polemica sul rapper ghanese (parmense di adozione) Bello figo che, imitando il modello gangsta e utilizzando gli stessi stereotipi razzisti usati contro gli immigrati, ha costruito brani politicamente scorretti, come Non pago affitto, istigazione all’illegalità di massa. Il video della canzone che alcuni equiparano al détournement situazionista, è volutamente sciatto, piatto, sgrammaticato dal punto di vista visivo. Ma chissà, quando anche Bello figo si sarà omologato al sistema musicale, magari i clip li farà dirigere a Spike Lee.

Grazie alla globalizzazione, negli ultimi anni si sono moltiplicate le tematiche socio-politiche nella musica e quindi nei clip. Pensiamo al problema scottante dell’immigrazione, affrontato di recente in Borders (2015) dalla popstar britannica M.I.A., con un suggestivo video firmato da lei stessa, dove la vediamo circondata da centinaia di giovani africani arrampicati su barriere metalliche o in modo da formare un barcone; a differenza di Michael Jackson, non pensiamo neppure per un momento che M.I.A. stia strumentalizzando il dolore altrui per i suoi scopi. Perché? Probabilmente perché la sua canzone parla di quelle sofferenze e lei appare come una di loro, ma soprattutto perché il video lavora sulla metafora e possiede una sua forza poetica.

Ricorrente è anche il tema della guerra, al centro di numerosi videoclip di tutto il mondo: uno dei più famosi è Boom (2003) dei System of a Down, con la regia del noto documentarista Michael Moore (già autore di lavori per i R.E.M. e per i Rage Against the Machine) che, montando insieme spezzoni dei telegiornali e sequenze originali girate in mezzo alla gente con i membri della band americana, documenta le manifestazioni contro il conflitto in Iraq del 15 febbraio 2003 che hanno coinvolto 10 milioni di partecipanti in tutto il mondo. Cantando «Boom!» davanti alla videocamera, ciascuno lascia un suo commento sulla guerra. L’impatto espressivo è quello tipico del regista di Farenheit 9/11: stessa grinta, un affastellarsi di volti e immagini, una mescolanza di satira e di denuncia, di realismo ed estetica mediale. La didascalia finale, forse un po’ retorica, annuncia: «La guerra è finita, se tu lo vuoi!».

Il front man del gruppo di origini armene, Serj Tanakian, nel 2007 è ritornato sul tema della guerra con Empty Walls (2007), chiedendo al regista Tony Petrossian di confezionare un clip pacifista ancora più potente: l’orrore e la violenza dell’Iraq è qui emulata da alcuni bambini che giocano intrattenuti in una ludoteca da Tanakian nei panni di un giocoliere-animatore; ma l’innocuo rituale si confonde con la realtà, poiché nel finale assistiamo al funerale di un soldato la cui bara è avvolta nella bandiera americana. Non c’è modo migliore della metafora e della satira per raccontare uno sporco e tragico conflitto provocato con la scusa di “esportare la democrazia”. […]

Videomusica e realismo

La questione del realismo non è tuttavia ineludibile e in diversi clip diventa fondante, tanto da rischiare – come vedremo – la censura. La rappresentazione della violenza, ancor più quando è messa in scena in maniera verosimile, appare insostenibile, creando problemi nella programmazione mediatica. Esistono casi di clip che sconfinano verso il “cinema verità”. Un esempio eclatante è Stress (2008) di Romain Gavras per i Justice, che ci mostra le scorribande degli abitanti delle banlieu parigine utilizzando la camera a mano (e la cinepresa diventa – a detta dello stesso regista – la vera protagonista del video), stacchi e salti di montaggio, perfino cesure con l’immagine in nero. Il brano elettronico-strumentale del duo francese si trasforma in sottofondo sonoro ed è la musica a mettersi al servizio delle immagini con la conseguenza che l’opera perde quasi la sua forma videomusicale.

Un po’ tutta la videografia di Gavras denuncia il suo singolare approccio al territorio del music video. […] Signature (2007) per DJ Medhi, Changer le monde (2008) di Rocé, I Believe (2008) per i Simian Mobile Disco, sono altrettanti lavori in cui Gavras si misura con contesti autentici e utilizza spesso persone reali che, nel caso di Stress […] estremizzano le proprie azioni proprio perché sanno di essere riprese. Certo, è tutto simulato, ma lo spettatore resta lo stesso sbalordito di fronte a tanto realismo. Un altro suo clip, Born Free (2010) realizzato per M.I.A., suscita ancora più scalpore di Stress e viene censurato su Youtube. […]

Crudamente esplicito è anche un clip più recente, Who Who? (2016) della band israeliana OSOG, diretto da Gal Muggia. Il video inizia come un romantico on the road che vede protagonisti un ragazzo e una ragazza (interpretati da Tomer Shushan e Inbar Marco), vagabondi in mezzo al deserto di un’imprecisata nazione. Ma poi gli eventi precipitano e i due cominciano a nascondersi per scampare a un massacro compiuto su civili inermi, fino a un epilogo ancor più spietato: il ragazzo sarà giustiziato con un colpo alla testa da un miliziano sotto gli occhi attoniti della compagna che fugge disperata. Who Who?, insomma, visualizza l’orrore quotidiano vissuto dalle popolazioni mediorientali, vittime di guerre e azioni terroristiche. Il piacevole (musicalmente parlando) brano degli OSOG contrasta nettamente con le immagini scioccanti, per quanto di finzione.

I palestinesi, al contrario, ogni tanto tentano di uscire dall’immaginario di violenza e sottomissione in cui sono condannati a vivere dal regime israeliano, provando a sorridere: un caso clamoroso – inevitabilmente politico ma che rientra pure nella tipologia parodistica (che affronteremo dopo) – è il video Happy Palestine (2014, regia: Marine G.): diversi abitanti della striscia di Gaza sono ripresi mentre ballano sulle note della hit di Pharrell Williams, un modo per affermare il diritto di esistere e, per un attimo, evadere dalla pesante atmosfera di un eterno conflitto.

Yes, We Can

Il music video può essere usato esplicitamente come strumento di propaganda elettorale. Il famoso discorso di Barak Obama Yes, We Can rielaborato in chiave hip hop da Will.i.am. (ex Black Eyed Peas) diventa nel 2008 un promo in bianco e nero, diretto da Jesse Dylan – figlio di Bob e autore di numerosi clip – dove l’allora candidato (e futuro presidente) è affiancato in split-screen da decine di musicisti che ripetono le sue frasi cantandole, in un contrappunto visivo/sonoro, scandito di tanto in tanto da parole come “hop”, “hope” e “change”. «L’influenza di Obama sui giovani, pur derivando da profonde tendenze culturali e sociali», scrive Manuel Castells, «fu incoraggiata dall’abile uso della cultura pop. Questo in parte è legato all’appoggio ricevuto da Obama da un folto gruppo di star del cinema, del rock e dell’hip-hop. […] Ponendosi quanto più possibile come figura politica iconoclastica, Obama riuscì ad aggregare i trend controculturali che sono alla fonte della creatività nell’industria dell’intrattenimento». Nell’agone del videoclip “politico” non poteva mancare anche un gruppo russo, Little Big (da segnalare per una serie di originali music video), che nell’irriverente Kind Inside, Hard Outside (2015, regia: Lina Pasok, Ilya Prusikin) mettono in scena un combattimento in diretta tv tra Obama e Putin stile Fight Club. Tutto sommato è un video piuttosto innocuo, altrimenti sarebbe stato censurato dal presidente russo, il quale si è invece molto risentito di fronte al brano e al video di Robbie Williams Party Like a Russian (2016), accusandolo di lesa maestà e minacciando il cantante inglese di non fargli mettere più piede sul suolo di Santa Madre Russia.

Molto più crudi e diretti sono i music video delle Pussy Riot, in alcuni casi veri e propri manifesti politici, atti di accusa nei confronti della repressione poliziesca di Putin di cui le componenti della band sono state le prime vittime: in Chaika (2015, regia: Nadežda Tolokonnikova e Andrey Fenochka), Police State (2017, regia: Matt Creed) o Bad Apples (2018, regia: Matt Creed), le Pussy Riot e Nadežda Tolokonnikova in primis, mettono in scena, attraverso performance in cui rivestono i panni dei poliziotti carnefici, la cieca violenza del regime putiniano, non usando mai – tuttavia – uno stile realistico, bensì surreale, simbolico e satirico pregno di ironia.

Dopo l’uscita di scena di Obama ci hanno pensato i Gorillaz a dare il benvenuto a Trump con il brano e la canzone Hallelujah Money (2017), esplicito attacco contro il neopresidente degli States, complice Benjamin Clementine dentro un ascensore “intarsiato” di immagini prelevate dai media. Ma la satira più dura è finora quella di Snoop Dogg, che in Lavender (2017, regia: Jesse Wellens and James DeFina) spara contro un clownesco neopresidente in un’America dove tutti sono irrimediabilmente trasformati in pagliacci. La videomusica a fini politici è alla base anche di operazioni di rielaborazione da parte dello stesso pubblico, secondo la ormai diffusa del remix, del mash-up e di pratiche basate sugli user generated content, ovvero quei contenuti prodotti dagli utenti dei media (a volte autorizzati dagli stessi artisti e case discografiche, altre osteggiate), campo in cui domina l’interattività. Pensiamo al taglia-incolla dei discorsi di George W. Bush o Tony Blair rispettivamente sulla musica degli U2 (Sunday Bloody Sunday) e dei Clash (Should I Stay or Should I Go).

Oltre che in quello cinematografico anche nell’immaginario videomusicale un delitto politico come l’assassinio di JFK a Dallas ha lasciato una traccia. Se in Coma White (1999, regia: Sam Bayer) vediamo Marilyn Manson in versione Kennedy replicare la classica “scena madre” della sua uccisione, con l’immancabile ralenti per renderla più onirica e surreale, condita a rimandi cristologici, come l’iconografia della pietas (nei panni di Jacqueline Kennedy c’è l’attrice Rose McGowan), nel video di Erykah Badu Window Seat (2010, regia: Coodle Rock) l’identificazione tra la musicista e il presidente si carica di una potenza performativa addirittura lancinante. Badu cammina per la strada di Dallas scenario dell’omicidio, togliendosi poco alla volta gli indumenti fino a rimanere completamente nuda (in realtà coperta da pecette elettroniche) tra i passanti che la guardano un po’ sconcertati. A un tratto sentiamo un colpo di fucile e vediamo il suo corpo riverso a terra. Girato in un unico piano sequenza probabilmente senza autorizzazione e una sola volta, il clip ha sollevato numerose polemiche negli Usa. Ma l’idea è vincente e lo stile senza fronzoli dona maggior forza a questo omaggio molto particolare alla memoria di Kennedy e alle sue battaglie per i diritti degli afroamericani.