Mentre tutto lo stato di Quintana Roo aspettava l’inizio della settimana santa e l’arrivo di migliaia di turisti, l’ultimo weekend del mese in cui si festeggia la Giornata mondiale della donna è stato segnato da 4 femminicidi, uno per mano della polizia.
Secondo le statistiche Onu in Messico vengono uccise più di 10 donne al giorno. Sabato 27 marzo 4 di loro sono state assassinate nello stato di Quintana Roo, in allerta di genere dal 2017 e dove lo scorso novembre la polizia di Cancún ha sparato sulla manifestazione che chiedeva giustizia per Alexis, un’altra vittima di femminicidio.

A ISLA HOLBOX, una donna di 29 anni di Progreso, Yucatán, tassista, identificata come Karla M. e madre di un bambino, è stata assassinata in modo estremamente violento e ritrovata all’interno del suo veicolo. Il primo femminicidio registrato nella storia dell’isola. A Cancún una donna è stata portata in un luogo disabitato, dove è stata uccisa da un colpo d’arma da fuoco alla testa e altri due al petto. Un’altra giovane donna è stata bruciata, ma la famiglia non ha voluto fornire ulteriori informazioni.

A Tulum nel pomeriggio di sabato 27, Victoria Salazar, una donna di 36 anni di origine salvadoregna, madre single di 2 figlie e con un permesso di soggiorno umanitario, si trovava nel centro della città, dove alcuni testimoni l’hanno vista mentre «provava a chiamare un taxi e fermava tutte le macchine, guardava sempre dietro di sé come se qualcuno la stesse inseguendo». Alle 18:30 è arrivata la pattuglia 9276 della polizia municipale, dalla quale sono scesi quattro agenti. L’hanno afferrata, ammanettata e sbattuta a terra, mettendole un ginocchio sul collo e fratturandole la base del cranio, provocando la sua morte.

La Commissione nazionale per la prevenzione e l’eliminazione della violenza contro le donne ha rilasciato una dichiarazione in cui si chiede che i responsabili siano puniti e la Commissione per i diritti umani (Cndh) dello stato ha sporto denuncia d’ufficio contro gli agenti implicati.

Secondo i dati della Cndh statale, dall’inizio di quest’anno sono state effettuate 335 denunce contro la polizia municipale, la maggior parte delle quali per detenzioni arbitrarie e trattamenti inumani durante l’arresto. A livello federale, secondo il rapporto di Human Rights Watch del 2021, è normale che le vittime di crimini violenti e violazioni dei diritti umani non ottengano giustizia dal sistema giuridico messicano e i dati della ong Impunidad Cero evidenziano che solo l’1,3% dei crimini commessi in Messico viene risolto. Questo è dovuto a vari motivi, tra cui corruzione, mancanza di formazione e risorse insufficienti, senza considerare la complicità degli agenti e degli avvocati d’ufficio con criminali e alti funzionari.

Cercando forse di migliorare queste vergognose percentuali, il procuratore generale dello stato di Quintana Roo ha dichiarato che sarà inflessibile nell’indagine, e di fatto la tempestività con cui è stato licenziato il capo della polizia di Tulum è da sottolineare. Il giorno stesso i quattro agenti che hanno ucciso Victoria, tra cui una donna, da lunedì sono reclusi nel carcere di Playa del Carmen con l’accusa di omicidio.

Sicuramente la rinnovata sensibilità con cui negli ultimi tempi vengono affrontati i casi di violenza di genere nei media nazionali ed internazionali, insieme alle pressioni del governo salvadoregno e alle parole usate dal presidente messicano nel commentare il caso («Ci riempie di tristezza, dolore e vergogna») hanno fatto pressione sulla magistratura di Quintana Roo. Anche la reazione dei cittadini non si è fatta attendere. A Tulum, poche ore dopo l’assassinio, centinaia di persone sono scese in piazza chiedendo giustizia. Le manifestazioni sono poi dilagate nelle principali città della regione con striscioni e slogan come «Polizia femminicida», «Non un’assassinata in più», «Non è morta, è stata uccisa» e «La polizia non si prende cura di me, le mie amiche si prendono cura di me». Gli stessi slogan con cui negli ultimi anni milioni di donne sono scese in piazza in tutto il mondo.

L’incapacità, gli abusi e la violenza fisica, verbale o psicologica degli agenti non sono una novità per nessuno che abbia avuto l’opportunità di relazionarsi con uno di loro. Per quelli che non hanno provato questa esperienza daremo alcuni dati. I primi sono di Amnesty International, che ha appena pubblicato un rapporto intitolato Messico: l’era delle donne. Stigma e violenza contro le donne che protestano in cui si legge che «le autorità rispondono alle proteste delle donne e contro la violenza di genere, con un uso eccessivo e non necessario della forza, con detenzioni illegali e arbitrarie, con abusi verbali e fisici basati sul genere e violenza sessuale». Lo stesso rapporto sottolinea come sia costante la pratica di inibire il diritto di riunione pacifica, attraverso «arresti o sequestri preventivi».

Secondo il procuratore generale dello stato «la manovra di sottomissione utilizzata è stata effettuata in maniera sproporzionata e con un alto rischio per la vita». Ma c’è anche chi dice semplicemente che «la situazione è sfuggita di mano agli agenti». I dati però restituiscono una realtà profondamente diversa. È la stessa tecnica che gli agenti di polizia di Minneapolis hanno usato su George Floyd, causando la sua morte e l’esplosione di rabbia del movimento Black Lives Matters. Molte forze di polizia hanno vietato questa manovra a causa degli alti rischi per la vita o l’hanno limitata a casi di estrema minaccia verso gli agenti, situazione in cui la polizia ovviamente non si trovava nei casi di Floyd e di Victoria.

Violenze inutili e immotivate, forse per l’incapacità di valutare il rischio secondo le direttive del Manuale per l’uso della forza redatto dal Segob (l’equivalente messicano del ministero degli Interni), a causa della scarsa o nulla formazione in materia di diritti umani della polizia, come dichiarato da una ex poliziotta municipale di Tulum e come confermano dai dati. In Quintana Roo, il 20% degli agenti non possiede la Certificazione unica di polizia (Cup), che garantisce la preparazione e la professionalità necessaria per ricoprire le proprie mansioni; peggio ancora a Tulum: il 54% degli agenti di polizia ne è privo, malgrado sia un requisito obbligatorio in tutto il territorio nazionale. Si parla di omicidio colposo, un errore, come se l’uso sproporzionato della forza da parte della polizia fosse stato uno sbaglio, il fallimento di alcune mele marce ma ancora una volta, i dati ci danno un quadro diverso della realtà.

Perché così tante persone (il 70% della popolazione messicana secondo i dati) non si fidano della polizia? I report internazionali e le cronache nazionali abbondano di casi di violenza perpetrata dalla polizia e dall’esercito. Dipingono un paese in cui la violenza è usata regolarmente e sistematicamente dallo stato. Secondo i dati del rapporto 2021 di Human Rights Watch, la tortura è ampiamente utilizzata in Messico per carpire prove o confessioni durante gli interrogatori, malgrado una legge del 2017 ne impedisca l’uso durante il processo. Secondo il Cndh le indagini istituzionali sui casi di tortura sono state 13 nel 2006 per poi passare a più di 7.000 nel 2019. Il Comitato delle Nazioni unite contro la tortura ha espresso la sua preoccupazione per il fatto che pochissimi di questi casi si traducono in procedimenti giudiziari o arresti: dei 3.214 casi di tortura registrati nel 2016 solo 8 hanno portato all’arresto e al relativo procedimento penale. L’uso della violenza è comune anche durante l’arresto: secondo statistiche nazionali, il 64% della popolazione carceraria ha subito percosse, scosse elettriche e altre forme di tortura al momento dell’arresto.

Sperando che l’assassinio di Victoria venga chiarito, c’è da chiedersi cosa sarebbe successo se la donna fosse stata di pelle chiara o di un paese europeo? Cosa sarebbe successo se negli ultimi anni le donne non fossero scese in piazza mettendo all’angolo chi governa, costringendolo a dare risposte rapide ed efficaci alla violenza di genere?