Fine novembre 1936, Parigi, André Gide è da poco tornato dal suo viaggio in Unione sovietica, da cui ha tratto il suo già famoso e discusso Ritorno dell’URSS. Anche Victor Serge è da poco tornato dall’Unione sovietica, il suo però non è stato un viaggio da “letterato” ma la fuga di un perseguitato politico, di un dissidente. Dopo diciassette anni di vita in Russia in cui ha partecipato alla rivoluzione e al suo difficile e tortuoso cammino Serge è tornato ancora una volta ad essere un apolide, un figlio di nessuno, un cittadino del mondo in un mondo che però tollera sempre meno simili abitanti.

I due, Gide e Serge, si parlano, si confidano, l’incontro è stato organizzato in gran segreto, un po’ perché Parigi pullula di agenti staliniani, un po’ perché Gide vuole evitare che si possa pensare che il pensiero sull’URSS possa esser stato influenzato da Serge. Lo scrittore confida il suo risentimento nei confronti della legislazione verso gli omosessuali, poi di un incontro andato a vuoto con Bucharin e infine delle attenzioni riservategli da Ehrenburg, allora uno degli scrittori più importanti dell’Unione sovietica, bollato da Serge come “uomo tuttofare, un agente segreto o di assoluta fiducia per gli agenti segreti.”

Poi Serge annota:” E’ inquieto. Come se avesse paura si se stesso. Devastato. Il disastro del comunismo. Parlato del Processo di Mosca. Nessuna illusione su questa scelleratezza e crudeltà. Ho l’impressione di un uomo estremamente scrupoloso, turbato fin nel profondo dell’animo, che voleva servire una grande causa- e non sa più come.”

Lo sfrattato Serge che coglie la delusione, il senso di smarrimento di uno scrittore che finalmente pensava di aver trovato la causa giusta per cui vivere e lottare.
E’ anzitutto questa lucidità e questa umanità ad emergere con prepotenza sin dal primo appunto di questi Carnets 1936-1947 (prefazione Roberto Massari, pp. 384, € 24) appena pubblicati dall’editore Massari (del quale va messa in risalto anche l’encomiabile cura all’edizione completa del libro più famoso e più importante di Serge, Memorie di un rivoluzionario.)

Ritrovati in una piccola fondazione a pochi chilometri da Città del Messico, dove Serge trascorse gli ultimi anni di vita, gli appunti di questo diario sono stati messi insieme e curati da Claudio Albertano e Jean-Guy Rens che curano anche l’introduzione al presente volume.

In realtà le pagine dedicate agli anni trenta sono poche, si potrebbe anche dire che questi diari iniziano davvero con la partenza di Serge dall’Europa, il viaggio in nave e l’arrivo in Messico.
Lì pochi mesi prima del suo arrivo, nell’agosto del 1940, Leon Trotsky è stato assassinato da Ramon Mercader. Serge è stato uno degli uomini più vicini a quello che molti ritenevano essere l’erede più probabile di Lenin e che invece è stato sconfitto nella lotta per il potere da cui è uscito un unico vincitore: Stalin.

Serge lo chiama ancora il Vecchio, nonostante la rottura che in queste pagine trova una viva ricostruzione resta ancora il rispetto, l’impegno nella traduzione delle sue opere, l’aiuto prestato ad alcuni militanti.
Costante sarà in questi anni messicani il suo tentativo di ricostruire gli ultimi anni di vita di Trotsky, la sua disperata solitudine e lontananza dalla Russia e dalla rivoluzione. In questo osservare e cercare di capire gli ultimi anni di quel fantasma per certi versi ancora così presente nella sua mente è come se Serge trovasse un modo per, specchiandovisi, guardare anche alla propria di condizione, al suo, di Messico.

E in questo sforzo di rimettere insieme i molti fili della propria vita di rivoluzionario sta anche la differenza della sua scrittura rispetto ad autori come Orwell o Koestler. In lui la ritrovata condizione di senza patria non coincide con il ritrovamento della libertà, ma con il sintomo personale di una sconfitta universale, quella della rivoluzione. La solitudine, l’esser soli, qualità essenziale e tipica di uno scrittore è per lui, diventato in quegli anni (malgrado la rottura con il vecchio) il simbolo per molti dello scrittore trozkista, una tragedia.

Nato nel 1890 a Bruxelles da un ex ufficiale della guardia imperiale zarista costretto a lasciare il paese dopo l’attentato alla vita dello zar Alessandro II, Serge si avvicina giovanissimo agli ambienti rivoluzionari e anarchici del primo novecento, nel ’17 è in Spagna dove partecipa ai tentativi di insurrezione.

Con lo scoppio della rivoluzione decide di partire per la Russia, dove arriva nell’aprile del 1919 e lì, nel pieno della guerra civile, decide di avvicinarsi ai bolscevichi e di fare un pezzo di strada assieme a loro. Restando però al contempo ben in guardia rispetto al dogmatismo, all’insofferenza verso le posizioni distinte o diverse dalle loro, e avvisando sui primi segnali di repressione delle istanze dei Soviet, a partire dalla rivolta di Kronstadt.

La sua lucidità lo porta inevitabilmente e progressivamente ad allontanarsi con la fine degli anni venti e l’inizio degli anni trenta dal mondo sovietico. E man mano che questa lucidità prende forma in una scrittura che non vuole risparmiare nulla di ciò che sa dire e che vuole dire, nasce al contempo la sua solitudine, che è la solitudine della sconfitta.

“Ciò che fa la forza e la grandezza dei rivoluzionari russi è il fatto che costituiscono un gruppo. Lenin e T. con intorno a loro i Bucharin, gli Zinov’ev, i Lunačarskij, Smirnov, Bubnov, (…) formavano un ambiente colto, istruito preparato sulla metodologia marxista, animato di passione rivoluzionaria, profondamente onesto- un risultato praticamente unico nella storia”.

Da questa solitudine e da questa sconfitta sono nate le Memorie di un rivoluzionario e anche questi Carnets pubblicati in questi giorni.