Ha provato, ha fallito. Ci ha riprovato, ha fallito di nuovo e meglio. Ciò nonostante, o forse proprio per questo, è rimasto nel cuore di tutti. Nel calcio dove la vittoria se la rivendicano tutti e la sconfitta è sempre orfana, Azeglio Vicini, morto ieri a Brescia un mese prima di compiere 85 anni, resterà per sempre nella storia per la semifinale persa ai rigori con l’Argentina che mette fine alle notti magiche di Italia ’90. Eppure i ricordi sono benevoli, affettuosi, ben oltre le solite frasi fatte che si regalano a chi non c’è più. Aveva qualcosa, Azeglio Vicini, la serenità, l’educazione, la dedizione al lavoro, l’amorevole cura nel far crescere i suoi ragazzi, che ti imponeva di volergli bene. Era un compagno, Vicini. A Brescia, dove aveva scelto di vivere con la famiglia, ha dimostrato più volte grande sensibilità umana e politica aderendo agli appelli dei movimenti in difesa dei migranti e degli spazi sociali. Ha allenato in un’epoca di furiose contrapposizioni: pressing o catenaccio, marcatura a zona o a uomo, Sacchi o Trapattoni. Ne è uscito indenne. Questione di stile.

NATO A CESENA nel 1933, ha una carriera da calciatore non particolarmente effervescente: discreto centrocampista con Vicenza, Sampdoria, Brescia, dove si ferma per un anno, appese le scarpette al chiodo, in quella che sarà la sua unica esperienza sulla panchina di un club. È il 1968, e mentre fuori cominciano a divampare i fuochi della contestazione, lui sceglie il posto fisso. Entra nel settore tecnico della Figc. Dieci anni dopo, eccolo alla guida dell’Under 21, che piano piano porta in semifinale all’Europeo del 1984 e poi in finale all’Europeo del 1986. Zenga, Bergomi, Ferri, Maldini, Giannini, Donadoni, Vialli, Mancini, sono alcuni dei ragazzi che cresce con sé nella nazionale giovanile e che nel 1986, dopo il brutto secondo Mondiale di Enzo Bearzot, porta con sé nella nazionale maggiore di cui diventa commissario tecnico. È una scelta logica, coerente, di un calcio che ancora poteva vantare una struttura federale. Fa specie a pensarci oggi, a fronte di commissariamenti e intromissioni della politica. Non è nostalgia, altrove è ancora così. In Italia si è scelto di svendere e privatizzare anche il pallone.

Agli Europei del 1988 l’Italia dei ragazzini diventati grandi arriva seconda, sconfitta in semifinale dagli ultimi echi della meravigliosa Unione Sovietica del colonnello Lobanovsky. Tutto è pronto per le notti magiche di Italia ’90 cantate da Gianna Nannini e Edoardo Bennato. Di una manifestazione che ha lasciato pesanti strascichi sociali e giudiziari, spalancando le porte all’avvento di Tangentopoli, i ragazzi di Vicini sono la faccia allegra e pulita: una grande famiglia che danza sulle punte di un gioco semplice e leggero. E vincente. Almeno all’inizio. Come Bearzot si era trovato tra le mani Paolo Rossi, così Vicini scopre la pepita di Totò Schillaci, riserva della Juventus prelevata l’anno prima dal Messina di Zeman. «È stato un uomo che ha avuto un’importanza enorme nella mia vita. Ha creduto in me, e se sono quello che sono l’80% del merito è di mister Vicini. Era un allenatore di altri tempi, un grande professionista, per me aveva anche consigli da padre», lo ricorda oggi Totò, capocannoniere del torneo con un gol a partita. In quel Mondiale c’è anche l’epifania di Roberto Baggio, non ancora con il numero dieci sulla schiena, si fa conoscere al mondo con il gol, strepitoso, alla Cecoslovacchia. Perso un Europeo Under 21 in semifinale e uno in finale, perso un Europeo in semifinale, tutto lascia immaginare che ai Mondiali Vicini sia finalmente destinato alla vittoria. E invece. L’uscita a vuoto di Zenga, il mefitico colpo di testa di Caniggia, e l’Italia nella semifinale di Napoli contro l’Argentina di Maradona esce ai rigori.

NIENTE FINALE A ROMA. Nel paese delle contrapposizioni calcistiche, dei maxiprocessi nel bunker e dei processi televisivi al pallone, avviene il miracolo zavattiniano: la finale per il terzo posto, invece che la solita funerea tragedia, si trasforma in un’allegra festa di paese. Per una volta con la p maiuscola. Poi Vicini manca la qualificazione agli Europei del 1992, il calcio è privatizzato definitivamente, svenduto alla politica dal duo Matarrese-Berlusconi che indica per la panchina della Nazionale il buon Arrigo Sacchi. Azeglio Vicini, dopo brevi esperienze con Udinese e Cesena diventa presidente dell’Associazione calciatori e poi del Settore tecnico della Figc. Vive a Brescia, dove fino a ieri lo si poteva trovare a difendere migranti e spazi sociali, con la stessa serenità ed eleganza con cui ha trovato, nelle sconfitte calcistiche, la più grande delle vittorie umane.