Nell’ambito della sezione documentari del 36° TFF, un percorso non competitivo è stato dedicato quest’anno al tema dell’apocalisse, con film del passato (Vive la Baleine di Chris Marker e Mario Ruspoli o La forza dei sentimenti di Alexander Kluge) e lavori più recenti (tra cui Atlantis di Ben Russell o lo straordinario dittico su Fukushima di Philippe Rouy) che in libere associazioni sono stati selezionati per un’indagine sui diversi significati di un concetto che da una parte indica l’olocausto di ogni forma di vita e dall’altra si apre all’utopia di una storia dopo la fine della storia. La sezione, curata da Davide Oberto, ha ospitato in anteprima l’ultimo film di Avo Kaprealian, regista siriano-armeno ora rifugiato in Libano. Kaprealian era già stato a Torino nel 2016 con Houses without doors che tracciava un parallelismo tra il genocidio armeno e la situazione attuale del popolo siriano ritraendo la vita quotidiana di una famiglia armena nella zona di Al Midan, sulla linea del fronte di Aleppo.

IL SUO NUOVO lavoro, intitolato Life=cinematic imperfections, è un oggetto visivo che riflette sulla rappresentazione dell’orribile e i suoi effetti su di noi in un tempo in cui i massacri, l’annientamento di vite umane e la distruzione del pianeta vanno in onda in full HD. L’opera è un montaggio work in progress di immagini della guerra in Siria e dell’esodo dei profughi, del massacro armeno, di monaci tibetani che si danno fuoco alternandosi a scene della pièce teatrale di Kaprealian Last Announcement tra loro unite dal fil rouge di una donna che intraprende un viaggio. Agglomerato di violenze e sofferenze di cui siamo spettatori ipnotizzati, Life=cinematic imperfections è un saggio sulla ripugnanza intesa, per citare Barthes, come quel moto in cui il corpo, disgustato, vuole divorare quanto lo disgusta e in questo gusto del disgusto si apre a una vertigine in cui il senso sfugge all’infinito.

DI FRONTE alla distruzione e al ripudio dell’altro, c’è chi si rivolge da tempo all’antichità per recuperare le forme di un’umanità ancora possibile. Nella sezione Onde del TFF, è stato presentato Ifigenia in Aulide con cui Tonino De Bernardi riporta ai giorni nostri la tragedia del potere e del dominio del potere sui corpi, ridando voce al testo di Euripide insieme agli amici che gli offrono ospitalità nell’Amarynthos contemporanea, nei pressi dell’antica Aulide, ma anche a Ventimiglia. Sulle coste del Mediterraneo, De Bernardi e la moglie Mariella onorano la legge dell’accoglienza distribuendo giubbotti di salvataggio che continuano a elargire anche una volta tornati a Torino.

Sempre in Onde, Tonino e Mariella sono a loro volta protagonisti di O termómetro de Galileu di Teresa Villaverde, sorta di diario filmato dell’ospitalità ricevuta dall’autrice nelle campagne di Casalborgone dove la coppia ha casa. Lì, trent’anni fa, Tonino De Bernardi girò Elettra (1987), l’ultimo film all’epoca prodotto in pellicola da Rai3 Piemonte, con cui l’ancora insegnante De Bernardi si riproponeva pubblicamente come autore a vent’anni dagli esordi di cineasta sperimentale che aveva conosciuto all’Unione culturale di Torino il New American Cinema e il Living Theatre e realizzato film quali Dei (1967) o il ritratto della poeta Patrizia Vicinelli A Patrizia: l’irrealtà ideale, l’oggetto d’amore (1968-1970). Quello di Villaverde è un film sulla vitalità della coppia in cui Tonino è ritratto dai nipoti come uno «che segue molto gli istinti» allorché Mariella «cerca di tenerlo un po’ più attaccato alla terra» anche se in fin dei conti «c’è una sorta di dipendenza reciproca tra i due». Mentre Mariella recita un testo scritto in omaggio a una vicina, Rita, e lui racconta delle donne piemontesi chiamate a interpretare Elettra, dei suoi avi e dei suoi film, i nipoti – che già erano stati assunti all’universo cinematografico del nonno nell’omaggio a Salgari Iolanda, tra bimba e corsara (2012) – dichiarano ora di avere imparato da loro soprattutto la generosità dell’accoglienza.

NEL CONCORSO principale del festival, il lungometraggio Marche ou crève della francese Margaux Bonhomme mostra come in talune situazioni, la generosità nasconda il bisogno di rendersi indispensabili e di affermare il proprio ego mediante il sacrificio. La protagonista è infatti una giovane donna che ha una sorella handicappata, i genitori separati e il padre senza lavoro. Quando, di fronte alle difficoltà di prestare alla sorella le cure necessarie, l’unica soluzione sembra rivolgersi a un istituto, la ragazza deve gestire il dissidio tra la necessità di costruirsi una vita autonoma e tutto un groviglio di paure, affetto, senso di colpa e responsabilità. Sempre in concorso, è tornato per la terza volta a Torino il canadese Sébastien Pilote con La disparition des lucioles. Dopo Le vendeur (2011) e Le démantèlement (2013), entrambi incentrati su figure di uomini di mezza età, anche questa volta siamo di fronte alla crisi del concetto di lavoro in un mondo post-industriale che fatica a elaborare un’idea di futuro in un momento in cui questo non può più essere legato ai vecchi paradigmi di riuscita economica e sociale.

QUI, PERÒ, il punto di vista su questo fenomeno muta perché la protagonista è una ragazza in procinto di diplomarsi che si affeziona a un musicista trentenne ormai sconfitto dalla vita ancora prima di averla vissuta. Pilote firma una specie di Ghost World ambientato nella provincia canadese deindustrializzata in cui la classe operaia è stata sconfitta senza gloria come il padre di lei, sindacalista in disarmo, e il nuovo che avanza è rappresentato da un potere mediatico corrotto che sogna la politica, come il patrigno. Nella dialettica tra vincenti disgustosi e perdenti patetici, il racconto di formazione della protagonista porta a un esito che rompe i ranghi di un mondo maschile fallimentare alla ricerca di ruoli e orizzonti diversi.