«Ti faccio vedere una cosa che è la più sacra del mondo». Txiki viene convinto dal cugino Julien a guardare sotto il proprio materasso ed ecco che «stesa sulla rete, apparve una bandiera basca, la prima che avessi mai visto. Non sapevo cosa fosse». La scoperta della bandiera è parte della vita di un microcosmo familiare, narrato da Fernando Aramburu in un romanzo scritto prima dello straordinario successo di Patria, e di cui ora, molto opportunamente, l’editore Guanda offre una traduzione italiana, con il titolo Anni lenti, pp. 230, euro 17,00). Si può ben dire che con questo racconto Aramburu abbia iniziato il suo periplo dolente tra storia e memoria, un andirivieni toccante alla ricerca dell’identità basca.

Txiki, il ragazzino protagonista del romanzo, non sa nulla dei paesi baschi: nato in Navarra in una famiglia numerosa e povera, era stato però mandato della madre a vivere a casa della zia, in un quartiere popolare di San Sebastián. L’autore immagina che Txiki stenda in un testo di molti anni dopo una sorta di diario di quegli anni e che lo faccia per fornire ad Aramburu materiali per un romanzo da scrivere. Un espediente narrativo classico, che nella letteratura spagnola ha il suo precedente più illustre nel Lazarillo de Tormes. Ai brani della narrazione di Txiki vengono poi interpolati pensieri e appunti dello scrittore, notazioni sulle cose da scrivere e su come scriverle, sicché il romanzo è costruito, con una tecnica accattivante, a mo’ di andirivieni tra questi due poli.

Grazie a questo espediente, creatore di distanza, il lettore può, anche lui, attraverso gli occhi di Txiki (che sono poi gli occhi di Aramburu, nato a San Sebastián nel 1959) scoprire il mondo di una famiglia basca come tante, sul finire degli anni sessanta. Proprio come Patria, anche Anni lenti propone infatti una storia familiare e di nuovo sono le donne a dominare la vita collettiva. É infatti zia Maripuy a governare con mano ferma la famiglia, mentre zio Vicente, un operaio taciturno e succube, appare debole e defilato. Maripuy è invece molto integrata nella comunità e aderisce alle norme sociali, anche a quelle più discutibili, con ferrea convinzione. Non sarà perciò facile per lei gestire una figlia ribelle, Marí Nieves, attratta dagli uomini al punto da farsi presto la fama di donna perduta.

Tra le grinze della realtà
Nel descrivere la sfrenata e precoce attività sessuale della cugina, il racconto di Txiki, si attacca alle pieghe delle vicende narrate, si insinua da vicino alla vita vissuta, cogliendo le grinze della realtà. C’è in questo testo una lingua che accarezza le cose, indugia nei particolari, attardandosi in dettagli minuti, sgradevoli, carnali, irritanti, impervi. A Julien ad esempio puzzano i piedi e questo particolare diviene oggetto di considerazioni reiterate, in un incedere apparentemente distratto ma che in realtà trascina grumi di senso, perché avvicina il lettore ai modi concreti della relazione tra i due cugini: fatta di giochi, di spensieratezza e poi, d’un tratto, dell’irrompere della realtà, quando i gendarmi della guardia civil irrompono a casa e dopo la perquisizione Txiki non trova più il suo gioco preferito, un dado azzurro con i punti dorati. Alla morte di Franco egli pregherà Dio di chiedere conto al Generalissimo, come «capo di tutti i poliziotti spagnoli, del furto del mio dado».

La vicenda di Marí Nieves è uno dei fili conduttori del romanzo. A un certo punto, alla notizia che la ragazza è rimasta incinta scoppia il dramma: «mia zia piangeva, mia sorella le diceva di calmarsi. La zia si calmava e allora era mia madre che cominciava a piangere». Dopo una serie di infruttuosi tentativi per farla abortire (bagni bollenti, impacchi di prezzemolo) ci si rassegnerà alla mala sorte, ma la bambina, Julia, nascerà cieca. Il parroco, Don Victoriano, spiegherà allora ad una affranta Marí Nieves che Dio le aveva affidato la piccola inferma perché, prendendosene cura, potesse raggiungere la vita eterna. Le sorelle intanto avevamo combinato un matrimonio con Chaco, una specie di scemo del villaggio, una scelta riparatoria scarsamente apprezzata da una disperata Marí Nieves, alle prese con una bambina con problemi crescenti, al punto da divenire intrattabile.

Posti a fianco del racconto di Txiki su questa vicenda, le note dell’autore girano attorno alla possibilità di inventare, a questo punto, un possibile colpo di scena: il suicidio di Marí Nieves. In una pagina fantastica Aramburu sciorina allora i modelli letterari che gli vengono in mente: farle inghiottire pastiglie come Madame Bovary o farla lanciare sotto un treno come Anna Karenina o ancora farla immergere nel fiume con un sacco di pietre in ciascuna mano, come fece davvero nella realtà, non in un romanzo, Virginia Woolf. A seguire, le necessarie contro-deduzioni, scritte con tono umoristico: quale fiume, si chiede Aramburu, «il torrente Ibaeta, nei tratti più profondi, arriva al massimo alle ginocchia…».

Un secondo filo conduttore della storia è Julien. Il racconto indugia sulle mosse melliflue di don Victoriano, il parroco che insegna ai ragazzi la lingua basca e organizza gite per studenti col fine di inoculare loro l’ideale di una patria basca libera: «meglio morire che vivere oppresso, fattelo dire da don Victoriano». Julien, vissuto in una famiglia dove nessuno parlava la lingua Euskera, si fa prendere da questi discorsi e ne fa menzione a Txiki: «Azione, repressione, azione: dimmi Tsiki sai cosa vuol dire? No Non preoccuparti. Sorrideva facendomi l’occhiolino, un giorno lo saprai». E un’altra volta: «hai visto, Txiki, ieri ne sono caduti due, uno dei loro e uno dei nostri. Pareggio: uno a uno». Julien diventa così, piano piano, un gudari, un combattente dell’Eta. Poi un giorno, la polizia lo cerca e allora lui, aiutato dall’organizzazione, si rifugia in Francia.

Alla fine le due storie intrecciate precipitano entrambe. Julien entra in rotta di collisione coi suoi nuovi compagni dell’Eta in esilio, viene accusato ingiustamente di essere un doppiogiochista, e allora, emarginato ed escluso, va a fare fortuna in America. La piccola Julia, invece muore in circostanze misteriose ed è con orrore che Txiki ricorda di essere stato mandato dalla zia a comprare l’aceto per la cena proprio nel momento in cui la bambina morì. Solo che nessuna delle pietanze preparate quel giorno per la cena aveva bisogno di aceto…

L’ultima è una parola di speranza
In questo precipizio emerge una figura negativa, quella di Don Victoriano, che, davanti alla bara bianca di Julia, fa sapere alla zia di Txiki di aver capito: «Prego tanto per te, Maripuy. Voglio credere che Dio si sia portato via tua nipote e non che tu l’abbia portata via a lui»; sarà lo stesso don Victoriano, d’altra parte, ad organizzare il boicottaggio di Julien: gli fa il vuoto intorno, non lo saluta e ordina al coro dell’Olentzero di non fermarsi più davanti alla sua casa. Il commento di Txiki è il pensiero di Aramburu: «queste sottane, come direbbe mia madre, hanno mooolto peccato».

L’ultima parola è però tutto sommato di speranza. Julien, ha conservato negli anni il ricordo di Txiki, simboleggiato da un ciclista-giocattolo che questi gli aveva donato. Poi, un giorno, a Txiki arriva una lettera dall’America di Julien e con essa una quantità di denaro: «Grazie per il ciclista, Txiki. Questo sì che mi ha portato fortuna. I soldi sono per farti studiare quello che ti piace all’università. Tuo cugino che non ti dimentica, Julien».