della cavalleria Joseph Blocker (Christian Bale), una vita trascorsa a combattere gli «indiani», arriva l’ordine che non avrebbe mai pensato di ricevere: liberare il capo Cheyenne Yellow Hawk, malato e in punto di morte, e scortarlo insieme alla famiglia nelle loro terre, in Montana.
Riluttante, lui stesso a un passo dal ritiro dal servizio, Blocker non può però opporsi a un ordine che viene dallo stesso Presidente e che lo obbliga a una lunga e pericolosa traversata in compagnia del suo nemico giurato e di una piccola squadra di soldati reclutati per la missione. La reciproca ostilità del capitano e del vecchio capo tribale dà il titolo al film di Scott Cooper: Hostiles. Ma l’ostilità è ovunque, a partire dall’asprezza delle terre da attraversare, con i pericoli che nascondono a ogni passo, siano essi i belligeranti Comanche che sterminano la famiglia di Rosalie (Rosamund Pike) – una colona che, unica sopravvissuta all’attacco, si unisce al gruppo – o i trappers che aggrediscono le donne nel cuore della notte.

Siamo dalle parti del western classico, del quale sono riprese tutte o quasi le colonne portanti: il viaggio attraverso la natura selvaggia, le «ombre rosse» che incombono sugli avventurieri, la strage della famiglia di coloni, l’eroe/antieroe segnato dal tempo passato nella wilderness e nella violenza primigenia del West, quel portatore della quintessenza dell’animo americano – «dura e assassina» – a cui fa riferimento la citazione di D.H. Lawrence che apre il film . Ma di quel western originario resta oggi per sempre e necessariamente irripetibile la (magnifica) spregiudicatezza nel sublimare la violenza più atroce nel vero e proprio canto della nascita della Nazione.

E anzi il film di Cooper intende proprio recuperare tutti quei passaggi obbligati del western per rivederli alla luce del senno di poi, «ristabilendo» un’ideale verità storica nei confronti del popolo nativo vittima dello sterminio, che si vorrebbe qui rappresentare non più prigioniero del doppio stereotipo buon selvaggio/spietato assassino. Un’ambizione storiografica sottolineata dalla collocazione temporale dei fatti: a due anni dalla chiusura della frontiera storica – e infatti il veterano Blocker si appresta a tornare nel mondo «civilizzato» dell’Est – e un anno prima della pubblicazione delle tesi di Frederick Jackson Turner sull’esperienza della frontiera come «matrice» della democrazia americana.

Per farlo Cooper ingabbia però i suoi stessi protagonisti, e la sua storia, in una programmatica imposizione della sensibilità moderna alle terre del West, che emerge in controluce da tutte le dinamiche della narrazione – gli irriducibili nemici che le contingenze obbligano a riconoscersi l’uno nell’altro, l’amico di Blocker affetto da stress post traumatico, il Buffalo Soldier trattato alla pari dai commilitoni bianchi – e nelle stesse parole dei personaggi, che si rivolgono ai Cheyenne chiamandoli «nativi», con un’accuratezza lessicale non solo impensabile nel vecchio West ma che ancora oggi manca a buona parte degli occupanti della Casa bianca.
Rileggere la storia col senno di poi è forse inevitabile per chi si accinge, oggi, a raccontarla. Ma riscrivere la leggenda nascondendo i suoi insondabili sprofondamenti nell’ingiustizia non è che la manifestazione di uno sguardo che non ha mai smesso di essere intrinsecamente colonizzatore.