«Con tutte le donne che ho incontrato, ho instaurato un profondo rapporto, a volte condividendo un giorno intero, altre solo un’ora e, in ogni lasso di tempo, ognuna mi ha regalato emozioni diverse. Sono convinta che attraverso la macchina fotografica si crei un microcosmo in cui la relazione tra soggetto e fotografo diventa estremamente intima in pochi minuti. Una vera e propria seduta terapeutica per entrambe le parti, un processo meraviglioso di crescita continua».
Spiega così Bruna Rotunno il suo progetto Women in Bali, ora in mostra al Mao (Museo di arte orientale di Torino, fino al 24 settembre, a cura di Gigliola Foschi, poi sarà la volta di Parigi) e raccolto in un prezioso libro, edito da Silvana, che presenta più di centocinquanta scatti, un testo di Anita Lococo (americana residente da 35 anni sull’isola indonesiana), e un altro della scrittrice balinese Cok Sawitri.

Otto anni di ricerche, una serie di viaggi sempre più immersivi e, alla fine, un tuffo rigenerativo nel mito fondativo del luogo: quello dell’Holy Water, la sacralità dell’acqua, che la fotografa restituisce nella serialità del quotidiano o in gesti rituali. Ha seguito le storie personali, è entrata nelle case, «sia in palazzi regali che nelle loro capanne», dice. Una passione la sua nata dal desiderio di staccare quell’isola, «induista in un oceano musulmano», dall’Indonesia tout court, riconsegnando una specificità ai suoi abitanti, soprattutto se donne, qualcuna anche straniera, ma ormai perfettamente integrata in quella cultura. Come Robin Lim, dottoressa che ha aiutato a far nascere, con la sua Bumi Schat Foundation migliaia di bambini. Oppure l’irlandese Natalia Sinclaire che ha aperto una scuola Montessori. O, ancora, Sri Adnayani Oka, che ha introdotto una banca di microcredito nel paese. «Bali è un luogo dove il femminile emerge con prepotenza attraverso il concetto di Holy Water – continua la fotografa – il cui significato  va inteso oltre la accezione comune religiosa, conosciuta anche in India. L’acqua è sinonimo di nascita, purificazione, guarigione, nutrimento e gioco. A differenza dell’India, qui le donne possono officiare alte cerimonie e occuparsi del rapporto con le divinità».

Ottanta immagini, un corto, sculture femminili in legno degli anni ’50 e alcuni oggetti legati ai culti costituiscono il percorso della mostra che si fa racconto ad ampio spettro. «Quello che più colpisce della cultura e della vita balinese è il senso di impermanenza delle cose. Le donne passano ore a creare le offerte fatte di foglie di banana intrecciate, fiori, piante aromatiche, riso e biscotti… Sono piccole opere d’arte che vengono posate davanti casa, sul vetro dell’auto, sul bagnasciuga. Poi, subiscono calpestamenti, i cani le mangiano e l’acqua del mare le porta via. Un po’ come i mandala, ma con lo scopo di nutrire gli spiriti buoni e quelli cattivi. È una liaison quotidiana quella con gli spiriti: loro li sentono, li vedono, li rifocillano».

Bruna Rotunno nel suo progetto ha scelto di rappresentare un lato – quello solare del paese, scartando volutamente da un immaginario più contrastato, pieno di ombre. «Con il mio lavoro volevo condividere anche il lato umano sorridente, creativo e fortemente comunitario supportato dalla grazia e dalla luce fluida dell’isola. I problemi enormi che si vivono nella South Bali sono prodotti dall’incremento incontrollato degli investitori (perlopiù indonesiani) che stanno distruggendo i litorali per creare hotel  da week end veloci per il turismo di massa (cinesi, russi e coreani). A ruota tutto degenera, dal traffico folle agli aumenti dei vari generi, a partire dalla benzina che cresce del 30% all’anno. Per fortuna, la zona a nord di Bali si mantiene ancora ’sana’».