La foresta dei sogni (prima mondiale a Cannes 2015) condivide con un altro film recente di Gus Van Sant, L’amore che resta (Cannes 2011), il genere – melodramma (espresso attraverso due protagonisti uniti da un’affinità con la morte) – e una struttura drammatica più tradizionale di quella di Elephant, Paranoid Park e Last Days, che rimane il suo film più bello e originale da parecchi anni a questa parte.

La libertà narrativa e formale, la sensualità dolorosa, la profonda affezione e fascinazione erotica per i personaggi di quei film manca pesantemente in questo nuovo lavoro che inizia con Matthew McConaughey che prende un volo per Tokio- solo andata. La sua destinazione è Aokigahara, una foresta di 35 chilometri quadrati alla base del Fuji, soprannominata anche «il mare di alberi», e (insieme al Golden Gate di San Francisco, secondo Wikipedia) la principale destinazione per suicidi del mondo; in prevalenza impiccagioni e overdose da farmaci.

Non sappiamo nulla di Arthur Brennan (McConaughey) quando imbocca il sentiero che si addentra nella foresta, oltrepassando cartelli che invitano a ripensare alla decisione di togliersi la vita. Muovendosi nella penombra, sotto il vasto tetto verde, Arthur incontra resti umani, oggetti, documenti d’identità, l’impressione di anime inquiete che galleggiano nell’aria. Il tutto ha una qualità fantasmatica, sinistra, che non diminuisce quando (dopo che Arthur ha già inghiottito una manciata di pillole) tra gli alberi appare un uomo sanguinante (Ken Watanabe), perso. Purtroppo questo preludio che suggerisce uno spazio minimal, puramente metaforico, oltre che una versione silvana di Gerry (sempre di Van Sant, con Matt Damon e Casey Affleck persi nel deserto) è interrotto molto presto da un flash back – il primo di una serie, in cui verrà meccanicamente spiegato il percorso che ha portato Arthur in quel posto.

In poche parole: una moglie (Naomi Watts) agente immobiliare, alcolizzata ma perfettamente funzionante, che lo perseguita perché non guadagna abbastanza (è matematico) e che lui si accorge di amare solo quando viene colpita da un cancro al cervello. Adesso che è morta, spiega Arthur al suo compagno di foresta, in uno dei molti passaggi atroci della sceneggiatura di Chris Sparling, lui vuole uccidersi «non per dolore o per paura della solitudine, ma per senso di colpa».

Tra un flash back e l’altro il film evolve in un episodio di Survivor colorato di buddismo, con i due ex-aspiranti suicidi, sempre più smarriti, alle prese con il buio, il freddo e la tempesta. Autore d’istinto impeccabile, elegante, quando alle prese con materiali che gli sono affini, qui Van Sant non sembra nemmeno lui: il tutto è non solo prevedibile, troppo letterale e mal girato, ma anche poco interessato ai suoi personaggi e incapace di usare il luogo, sia filmicamente che emotivamente a suo vantaggio. Le anime inquiete di Aokigahara dovranno aspettare un altro film perché venga resa loro giustizia. Almeno non sono state disturbate: La foresta dei sogni è stato girato in Massachusetts.