«Perché combattete? chiede il ragazzo ai militari ucraini, e quando uno di loro prova a rispondere con un’altra domanda continua a non capire. «Mio padre è ucraino, mia madre russa chi devo uccidere per primo?» gli dice l’uomo nella sua lunga dichiarazione sulla necessità di amare il proprio Paese. Rokas e Inga sono lituani, una coppia, giovani e belli – gli straordinari attori Mantas Janciauskas e Lyja Maknaviciute. Sono partiti da Vilnius verso l’Ucraina , Kiev e poi il Donbass, la linea di frontiera lungo la quale combattono i separatisti russi e l’esercito ucraino, per consegnare un carico di aiuti umanitari, scarpe vestiti, cibo altre cose. Senza consapevolezza, con un po’ di azzardo, non sanno bene il perché di questo viaggio, non sanno molto nemmeno della guerra. Forse è un modo per mettersi alla prova, per agire. O per trovare una risposta ai dubbi che crescono tra di loro, alle incertezze dell’amore, della vita, del loro legame lungo un cammino che come nel Viaggio in Italia rosselliniano fonde l’intimità all’irruzione del mondo.

Sharunas Bartas, lituano, uno dei grandi autori apparsi negli anni Novanta – l’esordio folgorante di Tre giorni era del 1991 – è un regista complicato che ha compiuto negli anni molti detour e battuto piste diverse senza però mai lasciare la ricerca che gli appartiene sin dagli esordi, le sue incursioni sentimentali di melanconia e durezza nella natura umana. Frost, presentato alla Quinzaine des Realisateurs è un film di viaggio – e il nomadismo è il dispositivo prediletto dal cinema di Bartas – attraverso i luoghi post-sovietici: Lituania, Polonia, Ucraina si srotolano veloci come punti luminosi rimbalzando dai vetri del furgone dei ragazzi. Lui alla guida tiene i rapporti, lei che parla poco russo è silenziosa; enigmatici, ambigui, sorridenti, pronti a ferirsi a vicenda con innocenza mentre l’utopia che sembrano inseguire appare sempre meno chiara più si avvicinano alla meta. L’itinerario cambia, si popola di incognite, Rokas perde la strada, il tempo si arresta, fluisce senza una precisa intenzione.

«Nei miei film ho sempre parlato di storie che mi riguardavano da vicino, di cui avevo avuto esperienza» dice Bartas. Cosa ci racconta dunque questo paesaggio innevato, col ghiaccio che lo inghiotte fino a cristallizzare il più piccolo alito di respiro? Una storia d’amore. È il film di Inga e di Rokas che stanno insieme e al tempo stesso sono distanti. Che vorrebbero amarsi con leggerezza, senza gelosie. È il film delle loro carezze e dei loro sguardi. E una guerra. Questo è Frost soprattutto, un film di guerra, anzi dentro alla guerra, che non vediamo ma di cui il regista dissemina i segnali lungo tutto il percorso assumendo la scommessa di ripensare il genere (cinematografico) nella contemporaneità. Non ci sono eroici soldati, graduati, effetti speciali. Ma c’è quello che della guerra, e del suo racconto, fa parte nel presente. I volontari, i giornalisti internazionali chiusi in un albergo di lusso, tra cui Vanessa Paradis, che seguono a distanza gli accadimenti, tanto di quella guerra come di altre poco interessa ormai. O peggio ancora è scivolata nell’abitudine dell’informazione. La guerra però nelle loro parole non c’è, bisognerà spingersi un po’ più lontano, continuare lungo la strada.

Fino a che all’improvviso deflagra nel paesaggio: i tank, i check point, le strade minate, le case vuote e distrutte, le armi, l’odore dei cadaveri mascherati dal ghiaccio che un battaglione assurdo di raccoglitori seppellisce, i nemici e i compagni. E allora: come raccontare una guerra parlando di qualcosa che fa parte del presente e insieme di quella confusione che arriva prima della paura e della morte. È questione di punto di vista, di calibrare le distanze. Bartas a differenza del giovane Rokas condannato dalla sua ansia di testimoniare tutto, di portarsi la guerra a casa l’iPhone – come i turisti di Austerlitz – si allontana per entrare nella sostanza del conflitto, lasciandola fluire nella sua impossibile definizione.