Nel 2010, ai critici che gli domandavano perplessi come mai la sua ultima opera Metel’ fosse contrassegnata da uno stile così inconfutabilmente ottocentesco, Vladimir Sorokin rispondeva imperturbabile che già da decenni avrebbe voluto scrivere «una classica povest’ russa». E, in effetti, il riferimento esplicito a questo genere intermedio, tra romanzo e racconto, sarebbe bastato di per sé a proiettare lo scrittore moscovita nell’orizzonte della tradizione letteraria del XIX secolo, dove all’ampio respiro dell’intreccio romanzesco si contrapponeva la breve durata della povest’, narrazione rigorosamente sfrondata da trame secondarie e focalizzata sulle vicende di un singolo personaggio. Ma al di là delle considerazioni legate al genere, è comunque difficile immaginare un testo innestato in maniera altrettanto esibita e programmatica sul canone letterario russo come La tormenta, ora proposto in italiano da Bompiani nella traduzione di Denise Silvestri (pp. 198, euro 17,00).

Non c’è infatti topos, stilema o motivo pur vagamente riconducibile a una idea quasi stereotipata di «testo russo» di cui l’autore non si sia spregiudicamente impadronito, dispiegando una sorta di mimetismo a un tempo parassitario ed eversivo. Una strategia appropriativa evidente sin dal titolo – identico a quello sia di una celebre povest’ puskiniana datata 1830, sia di un racconto giovanile di Lev Tolstoj del 1856 – nonché dalla situazione di partenza, che alcuni commentatori russi non hanno esitato a definire come «nota e arcinota, fino al mal di pancia».

Platon Il’ic Garin è un medico di campagna che sta cercando disperatamente di raggiungere la remota località di Dolgoe per soccorrere i suoi abitanti, decimati da una spaventosa epidemia. Senonché innumerevoli ostacoli si frapporranno tra lui e l’adempimento del suo dovere professionale: alla stazione di posta non ci sono cavalli, il vetturino che acconsente a guidarlo ha una tendenza patologica a smarrirsi e una mugnaia, novella Circe, lo tiene prigioniero per una notte nel suo mulino, facendogli perdere tempo prezioso. Ma lo scoglio principale è costituito ovviamente dalla tormenta del titolo, forza primordiale e ctonia che confonde le tracce, inghiotte di colpo la strada, annulla le coordinate topografiche e temporali, insorge come «un selvaggio, ostile, ululante spazio bianco», intenzionato a trasformare il protagonista in un ridicolo pupazzo di neve.

Fin qui si resta nell’ambito di una mera esercitazione stilistica sul tema del conflitto tra l’individuo volitivo, disposto a sacrificarsi per il prossimo in nome del progresso, e la natura russa intrinsecamente matrigna, fonte primigenia di ogni manifestazione di arretratezza e di fatalismo. La mossa che sposta il baricentro della narrazione verso una deriva fiabesca tanto originale quanto inaspettata è la scelta di proiettare questo sostrato realistico di stampo ottocentesco in un futuro acronico, dove la modernizzazione agognata dagli intellettuali progressisti del XIX secolo è stata vanificata da una spinta altrettanto potente a una arcaizzazione forzata della società a fini terapeutico-conservativi. Malgrado la stilizzazione ostentata su movenze desuete, La tormenta si iscrive infatti a pieno titolo nell’universo distopico concepito da Sorokin a partire dalla Giornata di un opricnik, tradotto sempre da Silvestri per Atmosphere due anni fa, ma risalente al 2006.

Nel futuro prossimo qui prefigurato dall’autore – il 2027 – elementi riconoscibilissimi dell’odierna Russia putiniana erano trasposti sullo sfondo di una società neo-medievale, dove il ritorno al sistema feudale non sembrava aver minimamente intaccato i meccanismi dell’economia capitalista e l’ossequio nei confronti di una autocrazia oscurantista e paternalistica era assicurata dall’oprichnina, la famigerata guardia del corpo di Ivan il Terribile tornata in gran spolvero. Un analogo attrito tra piani temporali all’apparenza incompatibili riaffiora anche nella Tormenta: malgrado i riferimenti cronologici siano qui molto più vaghi, le allusioni a una Rivolta Rossa di cui si è persa ogni memoria, nonché alla «lontanissima epoca staliniana», permettono di collocare la vicenda di Garin e del suo postiglione Raspino in un punto indeterminato del XXI secolo che risulta tuttavia inquietantemente simile alla Russia di fine Ottocento.
Un «domani» che, non a caso, il critico Mark Lipoveckij ha definito con un neologismo fulminante «retrofuturo» e che si immagina successivo a una lunga fase di regressione culturale e tecnologica capace di spazzare via definitivamente ogni traccia legata alla modernizzazione (ammesso che questa fosse mai avvenuta). Se nella Giornata di un opricnik la arcaizzazione dei costumi alludeva alla politica neoconservatrice e paternalistica di Vladimir Putin e assumeva dunque tonalità squisitamente satiriche, qui la sovrapposizione tra passato e futuro si fa se possibile ancora più spiazzante e si apre alla dimensione metafisica dell’allegoria. Difficile infatti resistere alla tentazione di interpretare in chiave simbolica le innumerevoli apparizioni che si profilano di volta in volta sul cammino già sufficientemente irto d’ostacoli del dottore. La strada che porta a Dolgoe è disseminata di visioni dall’evidente carattere onirico che, da una parte, rivelano l’illusorietà del fondale realistico-oleografico tratteggiato dall’autore, dall’altra sembrano adombrare una riflessione alquanto disincantata sulla traiettoria storica seguita dalla Russia e, soprattutto, sulle sue occasioni mancate.

Man mano che procede verso la meta del suo viaggio, Garin si addentra in un universo sempre più straniato e psichedelico, dove le dimensioni fisiche di oggetti e persone tendono a dilatarsi o a restringersi a dismisura, circoscrivendo uno spazio che si rivelerà del tutto ingovernabile. Impossibile domare, per esempio, i cinquanta minuscoli cavallini, «non più grandi di una pernice» che trainano la motoslitta di Raspino, relitto di una modernizzazione ormai lontana nel tempo e interrotta non si sa bene da quale catastrofe. Altrettanto ribelle è il marito lillipuziano della mugnaia, alto non più di un samovar, che con le sue chiacchiere malevole riesce a minare il rapporto di fiducia tra il dottore e il suo vetturino. Ma, in realtà, non sarà tanto ciò che è ridicolmente piccolo a sottrarre a Garin la speranza di poter raggiungere mai il villaggio di Dolgoe e i suoi malati, quanto l’impatto con creature spropositatamente grandi che, malgrado il loro aspetto grottesco, lo faranno precipitare in uno stato di incontrollato terrore. Sicché nelle pagine finali la lotta contro gli elementi naturali imbizzarriti assumerà sempre più i tratti di una stralunata gigantomachia, chiaramente destinata alla sconfitta.

Alternando con la consueta maestria i più diversi registri stilistici, Sorokin confeziona una ammaliante fiaba postmoderna che si apre a vari livelli di lettura, ma in cui la resa dei conti con le speranze coltivate dall’intelligencija progressista di fine Ottocento risulta comunque centrale. La trojka lanciata al galoppo con cui Gogol’ identificava le sorti progressive della Russia si è trasformata qui in una ridicola motoslitta trainata da cavalli, ed è evidente che a salvarla dalla bufera non sarà né Raspino, incarnazione del buon senso popolare, né tantomeno Garin, parodia di quei medici che Cechov spargeva liberalmente nella sua prosa e nelle sue pièce, fautori del progresso e della scienza. A Sorokin non serve certo una sfera di cristallo per predire che entrambi questi interpreti di una possibile palingenesi sociale hanno fallito; sottilmente perfido è costringerli a ripetere il loro naufragio in un «retrofuturo» privo di qualsiasi prospettiva di catarsi.