Pensando a Hölderlin, alla sua poesia così intrinseca alla parola, che è sempre ultima parola sull’essere e s’incarna costantemente nei lampi, nei cicli dell’immagine, Heidegger scrisse che ricordare ciò che è stato è prefigurare ciò che sarà. Un principio che tratto fuori dalla mera speculazione filosofica deve funzionare come presagio umanistico nella nostra realtà fatta oramai di restrizioni e rinunce; una visione del futuro (all’insegna dell’eternarsi dell’immagine, della poesia come fulcro di un «sempre» della vita) che va anche al di là di previsioni, statistiche, enumerazioni sgranate in stanca sequela dai notiziari.

SI TRATTA della vita delle immagini, del perpetuarsi dell’immaginazione come stadio essenziale dell’essere; perciò si può immaginare che manchi poco al ritorno del futuro, a quel tempo in cui si riproduca il rito della parola su un palcoscenico, delle immagini su uno schermo, un palco vibrante di musica, a dire, a fingere nella maniera più veridica possibile, l’unica possibilità di esistere, cioè dentro le immagini e la loro dialettica. Nell’attesa, ci si interroga sull’identità della sala cinematografica, spazio attivo in cui le cose – le moquette, i velluti blu, l’oscurità e i bagliori avvolgenti i corpi così in balia della visione – interagiscono e di lì s’intrecciano a ciò che accade sullo schermo, in una storia d’amore straziante e vertiginosa con i fantasmi alitati dal proiettore.

ECCO ALLORA l’inalienabilità della sala cinematografica: alcova in cui si mette in atto, si riproduce senza fine questa storia d’amore, questo mesmerismo per cui i nostri occhi penetrano in continuazione, e sono penetrati, accarezzati, vellicati dalle cose (in regime di pansessualità), dall’apparenza delle cose, il ricordo di oggetti e corpi che resta impresso sulla pelle, sulla carne del mondo, la pellicola, su cui s’esprime «la lingua scritta della realtà». E da lì questi fantasmi d’amore si muovono, ti vengono addosso: con schizzi, secrezioni di luce, liquidi radianti che colmano le distanze tra i corpi aperti al possesso, al particolare amplesso in cui, alla fine, si risolve l’esperienza cinematografica tra scena, proscenio e platea.

Ti invadono secondo una dinamica che nel 3D si fa dimostrazione – le forme che visivamente, non solo idealmente, si protendono verso lo spettatore –, testimonianza lampante di questa osmosi tra noi e l’«altro» cinematografico, ma anche della natura nient’affatto mimetica di questo formato che a ben vedere non simula, non imita ma inventa stadi, universi di tattilità e di spazio.

È LA NATURA anfibia del cinema che ritrova se stesso divergendo da sé, dalla stasi del proprio quadro e da forme passive di fruizione in favore di un’esperienza visiva sconvolgente, un trauma inflitto agli occhi ; come un tracoma che appanni, trasfiguri gli spazi, gli stessi, labirintici, che scandiscono la VR (Virtual Reality), tra apnee, voyeurismo e spaventosa intimità con le figure, le epidermidi, gli occhi che ti guardano e che guardi mostruosamente.

Non è un caso, anzi mi pare un auspicio, una possibilità per il cinema a venire dopo la pandemia, che alcuni festival dedichino sempre più spazio a questa pragmatica, anzi a questa trascendenza, della visione: lo ShorTS Festival di Trieste ad esempio, oltre alla Mostra di Venezia dov’è comparso qualche anno fa il capolavoro di tutta la VR e uno dei capolavori del cinema degli ultimi vent’anni almeno, The Deserted di Tsai Ming Liang, inabissamento in profondità mucide, pareti cadenti, covi ctonii adorni di ciarpami, e tu grondi, sei invaso, ti bagni della carne lubrica e disperata di un amplesso.

QUESTA INVASIONE è l’accentuazione, l’illusione, del tatto, di quel desiderio di toccare, possedere le forme proiettate, che da sempre si riflette in uno specchio equivoco, cioè nella dimensione cinematografica oscillante tra l’evanescenza, la totale falsità delle figure sullo schermo e la loro densità, intensità di incidere, sconvolgere i corpi della realtà che li guarda, che li riguarda. Penso a Love 3D di Gaspar Noé (uscito ormai cinque anni fa), perfetta, icastica testimonianza di questa storia d’amore spettrale che è il cinema, del compenetrarsi continuo della nostra carne con la carne fotosensibile dei fantasmi in diafana semovenza sullo schermo, protesa al di qua del quadro a realizzare l’amplesso, l’orgia con gli innumerevoli occhi di chi guarda, dentro quella soglia tra verità del giorno e notturna, astrale immaginazione che è l’esperienza cinematografica.

Apoteosi di frizioni, di soglie mucose dischiuse, il 3D di Love (anche solo alla prova dell’home video) incarna perfettamente l’azione di queste ermeneutiche interattive, invasive, ma in generale la natura anfibia del cinema: ci tira dentro la carne livida, disperata di una storia d’amore che ci riguarda da vicino, tanto da eiacularci in pieno volto, e che non può che esistere nella misura di una perdita (di immagine, sostanza alla fine del film che però è senza fine), di una ferita sempre aperta, una feritoia slabbrata che giocando con il possibile, con il pulsare della vita, spruzza ancora luce.