Associo inevitabilmente il nome di Constanza Macras all’idea del viaggio. La regista e coreografa argentina, però ormai basata da tempo a Berlino, forse più di ogni altro artista si è dimostrata capace di esplorare l’oltre e l’altrove. Con la voracità della propria cultura visiva. Che non è adesione a un tardivo spirito del tempo post-moderno ma presa d’atto della globalizzazione dell’immaginario, dell’esplosiva fusione che si produce ogni volta che mondi un tempo lontani vengono a contatto. Dal quartiere berlinese dell’ormai lontano Scratch Neukölln, approdo dell’immigrazione turca, alla delirante India bollywoodiana dello strepitoso Big in Bombay; dallo squarcio che la carovana rom di Open for everything apriva in un universo parallelo che sta dietro l’angolo delle nostre città ai «fantasmi» di un gruppo di acrobati cinesi incontrato nella provincia meridionale di Guangdong, The ghosts, in realtà tre ragazzine costrette sulla strada di un’atroce disciplina. E in ogni luogo mescolando le carte e le musiche e i passi di ballo, la street dance dei ragazzini di Neukölln e le danze gitane, le canzoni ebraiche e il pop asiatico.

Nel teatro di Constanza Macras, la danza non è mai un esercizio di stile fine a se stesso. Perché possa svilupparsi, qualcosa deve caricarsi fino a rischiare di esplodere. La danza è ciò che resta dopo che tutto si è consumato. Quando non c’è più nulla da comunicare e bisogna invece esprimere.
È che dietro quell’eclettica voracità con cui si consumano le immagini della nostra quotidianità, dietro il gusto divertito e divertente per le commistioni pasticciate, l’indisciplinato giocare a cavallo dei generi, ci sta anche un severo bisogno etico di «tornare al presente», come suggeriva il titolo del suo primo successo, Back to the present appunto, che vedemmo ad Avignone una quindicina d’anni fa. Che non è soltanto il difficile «ritorno al presente» che segue la fine di un amore: può essere una buona metafora di quella fragilità della memoria con cui bisogna fare i conti. «La memoria è fragile, la spazzatura invece rimane sempre» diceva il primo motto della sua compagnia DorkyPark.

Ma ogni viaggio comporta necessariamente l’incontro con l’altro, o bisognerebbe dir meglio: con l’immagine dell’altro. È che agli stereotipi non si può girare intorno, bisogna per forza andarci a cozzare. Come alla paura del contatto con l’altro, che forse è la patologia più diffusa dei nostri tempi. Torna in mente la porta che campeggiava al centro della scena di Here/after, fragile barriera contro l’esterno e l’estraneo, contro ciò che è sconosciuto e per ciò stesso pericoloso. Nell’incubo ossessivamente ripetuto che a un certo punto sconquassava la scena, nel tentativo di rimettere le cose al loro posto e il mondo sui suoi cardini, qualcuno bussava furiosamente urlando: apri questa fottuta porta.

La più recente creazione, Der Palast, l’ha riportata a Berlino, come periodicamente avviene, ma intanto abbiamo potuto assistere alla conclusione (forse provvisoria) della sua discesa nel continente africano. Iniziata qualche stagione fa con un programmatico On fire, che già nel titolo lasciava presagire qualcosa di bruciante. Vuol dire lasciare spazio allo scatenatissimo ensemble di danzatori sudafricani, all’energia fisica e al piacere profusi nel ballo dalla comunità incontrata a Johannesburg, che si mescolava a quella venuta dall’Europa con l’artefice. Nella consapevolezza però che anche quell’immagine può essere un’invenzione. Una rappresentazione dell’altro che si traduce in una cancellazione non meno escludente della segregazione.

Eccola allora puntare lo sguardo su Hillbrow e i suoi attuali abitanti. Da lì vengono quasi tutti gli interpreti, una ventina di giovani e giovanissimi. Una zona centrale di Johannesburg. Un tempo quartiere residenziale di borghesia bianca che l’aveva poi abbandonato in anni post-apartheid, lasciando che cominciasse a popolarsi di immigrati di altri paesi africani, mentre cresceva il tasso di violenza e criminalità di pari passo al rifiuto di quegli «stranieri». Una specie di gentrification al contrario, a questo sembra alludere il titolo, Hillbrowfication. Che da quel microcosmo ci riporta però a quello più grande di cui tutti siamo parte.