Nucleo tematico condiviso con gran parte degli scrittori apparteneti all’avanguardia che dominava il panorama letterario cinese nella seconda metà degli anni ottanta del Novecento, la morte è sempre stata oggetto della narrativa di Yu Hua, che la assume soprattutto come un preciso schema strutturale, un cronotopo nel quale esplica al meglio le sue doti di narratore e manipolatore di sentimenti. Alla base della intimità e della curiosa attrazione per i morti di Yu Hua stanno origini anche autobiografiche, spesso rievocate dallo scrittore: il padre era un medico e la loro abitazione era contigua all’obitorio dell’ospedale presso il quale Yu Hua abitava sin da bambino. Già nel 1986 aveva pubblicato «Racconto di morte», auto-cronaca di scioccante freddezza degli incidenti mortali causati da un camionista che sarebbe finito lui stesso linciato. Il provocatorio titolo del suo più celebre romanzo – Vivere, del1991– porta in sé un ossimoro perché altro non è se non il pietoso e ironico resoconto di una inarrestabile concatenazione di decessi che falcidiano la famiglia del protagonista, enfatizzando la sua fortuna/solitudine di sopravvissuto a esecuzioni politiche, guerre, carestie.

Una meditazione distaccata
«C’era una nebbia fittissima, quando sono uscito per avventurami nella città vuota e ovattata e andare alla camera ardente. È così che chiamano il crematorio ora. L’avviso diceva che dovevo presentarmi alle nove. La mia cremazione era fissata per le nove e mezza». Questo l’incipit vagamente kafkiano dell’ultimo romanzo di Yu Hua, Il settimo giorno, uscito ora da Feltrinelli nella traduzione di Silvia Pozzi (pp. 188, euro16,00): la morte si fa voce narrante e allo stesso tempo prospettiva del mondo dei vivi, dove il protagonista Yang Fei, rifiutando di essere cremato, vaga per sette giorni alla ricerca del padre. Una volta morto, non avendo ancora dimenticato la realtà della vita, trarrà un dolce-amaro bilancio del proprio passato e della società cinese con le sue grottesche contraddizioni.

Rispetto al tono adottato per quella sarcastica rivisitazione della storia recente (dalla Rivoluzione culturale al boom economico) che è la sarabanda di Brothers (pubblicata in Italia in due volumi), qui lo scrittore si fa più pacato e riflessivo, pur non risparmiando qualche graffiante descrizione della malattia morale e sociale che corrode la realtà cinese. Sempre abile nel miscelare un’ironia talora sguaiata a umanissime manifestazioni sentimentali, Yu Hua sembra aver trovato in questo romanzo un buon equilibrio tra i due ingredienti, conducendo a un esito più rappacificato le violente pulsioni caricaturali delle sue precedenti esperienze narrative. Dunque, è una nuova sintesi quella alla quale è approdato: tra le sperimentazioni iniziali della sua scrittura e il suo costante tentativo di leggere tra le righe sconnesse della storia e della società cinesi. Ne viene fuori una meditazione lievemente distaccata dal greve contesto dell’hic et nunc cui Yu Hua e altri scrittori importanti, come Mo Yan e Yan Lianke, ci hanno abituato nelle loro interpretazioni iperrealistiche e allucinatorie della Cina moderna.

Il primo scioccante stupore nel rendersi conto di appartenere ormai a una realtà di zombie si trasforma per Yang Fei in una sorta di avventura «on the road» nella «terra di chi non ha sepoltura». Nel paesaggio brumoso e desolato di questo limbo contemporaneo, interstizio tra viventi ignari e smemorati defunti, l’uomo incontra, come nell’aldilà dantesco, una teoria di anime/corpi inquieti ancora attaccati alla vita ma via via corrosi dalla morte, che gli raccontano le circostanze spesso incresciose del proprio trapasso: l’ex-moglie che si è tolta la vita perché coinvolta in uno scandalo finanziario; la coppia rimasta sepolta in una demolizione notturna di vecchi edifici; i bambini morti nell’incendio di un centro commerciale insabbiato dalle autorità; il suicidio di una sciampista delusa dalla vita e dal fidanzato per il suo mancato Chinese dream di consumismo e successo; il poveruomo giustiziato iniquamente dopo una falsa confessione di uxoricidio estortagli sotto tortura. Fino alla più pietosa delle morti, quella del padre – figura tenera ed esemplare – che il protagonista, trasformatosi in un commovente Enea cinese, va a cercare durante la sua discesa nel pre-aldilà. E tuttavia il paesaggio si rivela molto diverso da quelli danteschi segnati dal senso del peccato e dalla religiosa accettazione del giudizio divino. L’aldilà di Yu Hua ricorda piuttosto le fantasie della cultura cinese tradizionale, di un mondo che imita la realtà terrena replicandone in un’atmosfera di inusitata allegria e solidarietà i gesti quotidiani del piacere e delle relazioni umane: i personaggi che Yang Fei incontra nei suoi primi sette giorni da morto, tragici mimi della propria passata esistenza, raggiungono tuttavia in questa ritrovata uguaglianza del non-essere uno stato di pacificazione. L’unica pena che li affligge è la prorogata speranza di trovare riposo in una tomba.

Era già accaduto in Vivere, e soprattutto nell’Eco della pioggia (esordio dello scrittore) che la narrazione sottintendesse due coordinate: una orizzontale, filosofica, fatta di temi come il tempo, la memoria, la paternità e una verticale, storica. Nei due primi romanzi di Yu Hua l’esperienza della Repubblica Popolare Cinese viene ripercorsa attraverso varie generazioni, che vivono il passaggio dall’infanzia alla adolescenza alla sofferta maturità, accompagnate dal brutale passaggio della Storia. Nel Settimo giorno invece i tempi si addensano e le memorie di una vita vengono compresse e dissezionate da Yang Fei nel breve lasso di sette giorni (misura biblica, una specie di creazione al contrario), nello spazio sempre più rarefatto e a-geografico del suo viaggio metafisico.
Il cadavere della Cina
Le scelte stilistiche di Yu Hua in questo romanzo rimandano solo in apparenza alla sua prima narrativa e al suo trascolorare dalla sperimentazione al neorealismo dei primi anni novanta, perché i temi toccati si incarnano qui concretamente nei personaggi e nelle storie superando la ricerca estetica dell’avanguardia. La rappresentazione astratta della morte compariva in racconti tra cui «Le cose del mondo sono come fumo» – dove i personaggi, tutti vittime di morti astruse, vengono indicati con sole lettere alfabetiche. Qui, invece, qui la morte acquista una sua fisicità, decomponibile e sottomessa alle intemperie del trapasso, mentre si allude a un altro cadavere, quello sociale, flagellato da decenni di sfrenato sviluppo.
La cifra dell’iniziatico cammino verso la morte di Yang Fei è infatti sociale, e attraversa lo iato tra popolazione urbana e rurale, le piaghe dell’inquinamento e della corruzione, gli abusi del potere, l’indifferenza e la miseria in cui vivono a milioni nella «tribù dei topi», come vengono chiamati i tanti precari delle metropoli cinesi che trovano rifugio in sordide abitazioni sotterranee. Per ammissione dello stesso scrittore, il romanzo porta a compimento il suo annoso desiderio di scrivere – attraverso fatti di vera cronaca solo lievemente rielaborati – «trent’anni di storie assurde accadute in Cina». «E quando le stesse notizie si ripresentano per trent’anni», aggiunge citando un critico letterario cinese di cui non fa il nome, «occorre sia la letteratura a parlarne».