Sono epifanie che restano nella memoria quelle di Tonino Taiuti, generoso corpo-voce scaturito dalle viscere di Napoli. Come un’antica maschera in costante rinnovamento, da una quarantina d’anni Taiuti è parte della scena napoletana dei Neiwiller, Moscato, Martone… a teatro e nel cinema. Musicista e pittore, sempre un po’ in disparte, Taiuti porta la grande eredità di Petito e di Viviani, anche in questo suo ultimo spettacolo, La vita dipinta, vivificando la parola scritta proprio per lui da Igor Esposito, autore forse ancora acerbo, di cui però Valerio Binasco, lo scorso anno, ha messo in scena Sisters. Nel buio della ristrutturata Sala Assoli del Teatro Nuovo, Taiuti avvia un viaggio in solitaria attraverso la storia dell’arte del Novecento, in un’aria cimiteriale.

A SINISTRA un registratore a bobina, citazione del beckettiano Krapp, sembra contenere già tutto quel delirio, quando l’attore si manifesta come un folle senza identità – se non quella dell’arte come incontenibile rivoluzione, insaziabile nel raccontare pezzi di vita vissuta (immaginata) con i protagonisti delle avanguardie. Frequenta il Cabaret Voltaire e va a braccetto con Trista Tzara. È il primo lettore del Manifesto surrealista e stava con Pollock quando ubriaco si è schiantato con la macchina. Irriverente e comico dice: «Eravamo io, André Breton, Pablo Picasso e Man Ray…», ma se non fosse un fuoriclasse a recitare queste battute, lo spettacolo si ridurrebbe a un divertissement utile per il ripasso scolastico.