Non esiste al mondo, probabilmente, un posto maggiormente iconico di New York City, una città che attrae ogni anno milioni di turisti da tutto il mondo, e, al contempo, un posto che ti sembra di conoscere da sempre anche se non ci sei mai stato e che, quando ci metti piede la prima volta e ti guardi intorno, ti lascia una sorta di déjà vu. New York, una delle metropoli più contraddittorie del pianeta, dove trovi la più alta concentrazione di ultraricchi che non di rado si possono incontrare nelle strade del Financial District mentre basta spostarsi di qualche chilometro per ritrovarsi in una sorta di ghetto, tra homeless e gente si barcamena al limite della sopravvivenza; una città che o si ama o si odia, senza mezzi termini. Tra le tantissime «attrazioni» che la città offre non si può non annoverare la sua stazione ferroviaria, Grand Central, incastonata e inghiottita dai palazzoni che si innalzano fin quasi a toccare le nuvole, come il mitico Chrysler o il Metlife.

Grand Central è un mondo a sé stante, un microcosmo che diventa macro viste le dimensioni dei suoi spazi, a partire dal numero di binari, il più alto sul pianeta; un universo di storie e fatti che partono dalla fine dell’Ottocento e arrivano a noi, nonostante abbia rischiato più volte una fine ingloriosa. La storia, anzi le storie di questo «Terminal» (perché qui i treni non sono di passaggio, ma arrivano per fermarsi) ce le raccontano due giornalisti italiani, Sandra Cervasio e Alessandro Vaccaro, in un libro dal fascino quasi rétro, «Grand Central Dream» (Francesco D’Amato editore, 14 euro), il cui sottotitolo spiega alla perfezione il senso dell’opera: «Viaggio nella stazione di New York tra arte, cinema e letteratura». Centosessantadue pagine suddivise in nove capitoli ognuno dei quali accompagnato da una colonna sonora, che vuol essere solo un consiglio per gli ascolti ma che ogni lettore, e possibilmente turista, può creare a suo piacimento.

Il volume racconta in primis l’evoluzione della stazione, da quello che era originariamente un «depot» passando per una classica «station» e finendo appunto col diventare, ufficialmente nel 1913, un «terminal»- probabilmente, dal punto di vista architettonico, con i suoi vari stili, il più affascinante al mondo -, e via via se ne scoprono vicende note e segreti inattesi e, spesso, invisibili. Personaggi e aneddoti appaiono e scompaiono come in un gioco di prestigio, con nomi che ricorrono più volte, come quello di Cornelius Vanderbilt, il magnate di origini olandesi che consentì la costruzione di Grand Central Depot, o di Jacqueline Kennedy, cui si deve una strenua lotta per salvare la stazione dalla demolizione e a cui è dedicato un piccolo bassorilievo, quasi invisibile, lungo una delle gallerie della stazione; e ancora Paul César Helleu, che dipinse la volta del Main Concourse, un cielo stellato con tutte la costellazioni che però, per un errore il cui mistero resta irrisolto, risultano scambiate e i punti cardinali invertiti.

Come detto il libro mette in fila anche tutta una serie di segreti, più o meno noti al turista, che Grand Central custodisce, spesso gelosamente, a partire da quelli invisibili al pubblico come il Track 61, il binario che un tempo collegava la stazione direttamente con il famoso hotel Waldorf Astoria, ad esclusivo servizio privato per i treni di alcuni ospiti speciali del lussuoso albergo, uno su tutti il presidente Roosevelt. Ma il punto di maggior interesse lo si ritrova nei collegamenti tra il Terminal e le varie forme d’arte, dalla pittura alla scultura, dalla letteratura al cinema e alla musica, il tutto grazie alla ricerca puntuale che Cervasio e Vaccaro sono riusciti a mettere in atto.