Tornare a Fellini nel centenario della sua nascita non può che incrociare l’attualità distopica e surreale, tra resistenza dell’immaginazione in un mondo d’utili e referto dell’iniquità del contemporaneo, di un blaterare ipocrita divenuto principio, ideologia; e come il giovanilismo ebete al centro ad esempio della Voce della luna in cui alla fine s’invoca il silenzio. Ma al polo opposto di questa empietà c’è l’esperienza fantastica, la sacralità della creazione, sorta e alimentata proprio nei santuari dell’immagine in movimento, in corsa a 24 fotogrammi al secondo: questa la formula, la misura dei sogni.

SONO LE SALE cinematografiche, fondamentali per Fellini di un brulicare e straripare della sua immaginazione intrisa di reminiscenze, quando sedeva al Cinema Fulgor, «con i suoi stucchi rosso-oro», così simile non solo ai cinema della nostra infanzia, polverosi e assonnati di silenzio, di freddi prosceni e di un qualche bisbiglio penetrato da un meato, ma a ogni cinema ancora oggi, in cui si rincorrano ombre, mitopoiesi, semplici ricordi di là dalle tende di velluto: un contesto, la sala appunto, in bilico tra buio e abbaglio, imprescindibile dal testo, dal film, che in questo luogo fetale, solo in questo covo oscuro e senza tempo acquista le sue risonanze proprie, le sue verità innate.
Lì il piccolo Fellini si proiettava negli ecosistemi sulfurei e artefatti dei kolossal di Freda, nelle sintesi comiche di Charlot, Keaton ecc., o si lasciava investire dalle nebbie inveterate dei noir, che poi torneranno così mute ed eteree in Amarcord, tra i suoi film più rappresentativi del procedimento e dell’universo felliniani in quanto assolutizzazione, reinvenzione del ricordo personale, tant’è che ho imparato lì, o l’ho ricordato, non ricordo più, che non si beve prima di mangiare, ti si gonfia lo stomaco: è scritto sulla «Domenica del Corriere».

UNA MITOBIOGRAFIA allora quella di Fellini, non una biografia: una storia che si racconta per miti, opere, motivi letterario-cinematografici, musicali, insomma tutto l’apparato eidetico proprio di un inconscio collettivo in cui l’autore è inserito, piuttosto che per sole rimembranze individuali. Questo, partendo dalla Mitobiografia dello psicanalista junghiano Ernst Bernhard, mentore di Fellini, è lo spunto del bellissimo libro di Bruno Roberti L’apparizione e l’ombra (Edizioni Fondazione Ente dello Spettacolo), una specie di viaggio esegetico, ma non privo della fluidità del racconto, entro il cinema, cioè il viaggio felliniano intrapreso attraverso il continente delle immagini, per non dire dei molti aldilà sfiorati, allusi, come affacciati per un istante macabro, epifanico negli spiragli delle ombre. Il Viaggio di G. Mastorna, il film mai realizzato da Fellini a causa di vaticini, sogni premonitori, ingiunzioni a non procedere fatte ai produttori, sarebbe stata l’apoteosi di questa invisibilità sovrumana, umbratile che presiede alla realtà e si trasla secondo Roberti in un film spesso sottovalutato quale Giulietta degli spiriti, vera e propria fenomenologia dell’ombra.
Ma «non si tratta tanto di fantasmi, di spiriti, di insorgenze dall’altra dimensione, quanto della possibilità di «vedere un rovescio del reale». Il che evidenzia il punto di partenza del processo creativo felliniano, di quella che tecnicamente si chiama gnoseologia, cioè il Neorealismo e soprattutto il paradigma rosselliniano su cui Roberti insiste portando gli esempi dei primi film di Fellini fino a soffermarsi su La strada, con i suoi sfondi petrosi, ruvidi, o i nevai che trasudano freddo lancinante, arrivando poi al mare; e su tre sequenze a loro modo rosselliniane, miracolose poste alla fine del libro.

MA QUAL è il miracolo? È quello della trasfigurazione, della transustanziazione: del vedere un altro da sé delle cose, uno spessore plastico, coloristico, fonico nelle cose più minute, nell’umano, quello stesso umano messo al centro anche dal Neorealismo che però lo sondava e rappresentava, anzi lo presentava nella sua nudità, una povertà pure capace di apparire in flagranza come in Francesco giullare di Dio. Fellini lo lavora, l’umano, l’intaglia, attingendo agli archetipi che poi si ordinano, anzi si disordinano nell’atmosfera circense del set cinematografico: lo gonfia, lo accende di tinte sature, musiche eclatanti, dialoghi che si sovrappongono l’uno all’altro come in un «flusso di coscienza joyciano», arrivando a un barocco, a un onirismo che si esercita nel senso di frammentarietà della narrazione perché affiori improvvisa, stupefacente, l’apparizione e poi si trascini fino al suo risvolto umbratile. È come l’alba, fatta di una luce livida, ancora bagnata di residui di buio – Roberti la chiama «immagine purgatoriale» – che ricorre ossessiva in molti dei suoi film con l’intento di mostrare lo sfacelo connaturato al fiorire dell’immagine, al «monumento» barocco: un che di mortuale, che seduce, attrae nel suo risuonare sfatto, perché antifona segreta, oscura dell’inconscio non solo, non più solamente felliniano.