Non è il consueto Grand Tour letterario all’inglese o alla francese nelle più remote e arcaiche regioni del Sud Italia, quello che nella primavera del 1881 il pugliese Cosimo de’ Giorgi intraprese alla volta di uno degli angoli meno conosciuti del Mezzogiorno, quello che da Eboli scende fino a Sapri, costeggiando il mar Tirreno. L’autore di Viaggio nel Cilento, pubblicato a puntate su alcuni giornali dell’epoca e oggi riproposto dall’editore cilentano Galzerano (pp. 288, 15 euro), fu incaricato dal Reale corpo delle miniere, all’indomani dell’Unità d’Italia, di compiere un’«esplorazione geologica» nella subregione campana. Il geologo salentino andò oltre: attraversando in lungo e in largo un’area estesa quanto la Val d’Aosta, delimitata dal mare per un verso e circondata per due terzi da catene montuose che la rendono inaccessibile quasi quanto un’isola, ne denunciò le condizioni miserabili di vita del «proletariato», oppresso dalla nuova classe dominante piemontese in accordo con la borghesia terriera locale, nonché l’arretratezza sociale, economica e culturale.

Pur detestando il socialismo che covava «sotto la cenere» pure a queste latitudini, de’ Giorgi non esitò a denunciare lo sfruttamento padronale e la subalternità femminile in terre che, pur marginali, erano state percorse per tutto il secolo da fermenti pre-risorgimentali: la «rivoluzione insubordinata» di Montano Antilia del 1828 con la repressione borbonica, le occupazioni «comuniste» delle terre del 1848, l’avventura disordinata di Carlo Pisacane affogata nel sangue.

Già nel 1878 il deputato Giuseppe Romano aveva reso note al Parlamento le condizioni di vita dei cilentani: «Nel Cilento il contadino mangia pane di ghiande, e quando il povero contadino è agli estremi della sua vita non si dice già che gli hanno dato l’olio santo, ma si dice che lo hanno messo a pane di grano», a voler dire che quest’ultimo era una prerogativa assegnata solo ai moribondi. Era l’eredità lasciata dal regime borbonico, che considerava il Cilento «la terra dei tristi», allo Stato unitario, che ne fece invece un’area infestata di «briganti», spesso contadini che avevano creduto nell’Unità d’Italia e avevano visto il sogno risorgimentale infrangersi in un gattopardesco rivolgimento finalizzato a lasciare che i rapporti di classe rimanessero quali erano stati fino ad allora.

Rilette a un secolo e mezzo di distanza, più che le conclusioni (la necessità di costruire strade e ferrovia, di portare scuole, industrie e turismo), di questo Grand Tour socio-geologico in Cilento contano le impressioni del viaggiatore, il racconto dei luoghi prima ancora che della natura, la denuncia di una condizione di immobilità sociale che ritroveremo più tardi nel Cristo si è fermato a Eboli di Carlo Levi. Trentacinque anni dopo, la questione meridionale era ancora tutta lì, ben lungi dall’essere risolta. Ancora oggi, sfogliandone le pagine, si capisce a quante velocità l’Italia abbia viaggiato nell’ultimo secolo e mezzo.