L’Eufrate è un corpo di acqua e di mito che nasce non lontano dall’Ararat, monte sacro dell’Armenia, attraversa la Turchia, giunge in Siria e scorre in Iraq dove incontra il Tigri sfociando infine nel Golfo Persico. Nella Bibbia, l’Eufrate è «il fiume» per eccellenza che sorge dall’Eden, dà linfa alla Mesopotamia e bagna Babilonia. Al suo corso è dedicato uno dei più interessanti focus tematici del 16° Doclisboa, festival del documentario nella capitale portoghese: «Navigare l’Eufrate, viaggiare nel tempo del mondo» a cura di Davide Oberto.

ESPLORARE cinematograficamente l’Eufrate significa confrontarsi con la storia di un territorio, di chi lo abita e con un immaginario fertile che muta nel tempo. Concepito secondo un criterio orografico e cronologico, il focus ha preso avvio con un programma di film realizzati in Armenia a pochi anni di distanza da un genocidio che pur non essendo impresso sulla pellicola resta presente fuori campo. È infatti un paese devastato dalla guerra quello che emerge dalle immagini riprese nel 1919 dalla Missione militare americana in Turchia inviata da Wilson per attuare la dichiarazione Balfour e imporre un ordine territoriale in Medio Oriente. Anche il corto Armenia, culla dell’umanità (1919-1923), restaurato nel 2015 dalla Cineteca di Bologna, mostra un paese che non ha più nulla di edenico e infine Namus (1926) di Hamo Beknazaryan, primo film di finzione armeno, narra la tragedia di un amore contrastato.

A questa regione tanto geografica quanto immaginaria è rivolto inoltre il corpus di opere in video con cui il francese Jacques Kébadian, figlio della diaspora, compie un’indagine sulla memoria famigliare servendosi dell’arte come forma di espressione del rimosso e del non detto. In Buvards (1979), l’autore filma i disegni della sorella Aïda, affetta da mutismo ma capace di esprimersi con una pittura carica di echi di un trauma vissuto indirettamente eppure presente. Così, in Colombe et Avédis (1981), aiuta Serge Avedikian a ricostruire l’epopea dei suoi cari nelle ultime settimane di vita del nonno. Al pari di uno scavo archeologico, la storia riemerge a frammenti, tramite frammenti di pellicola: i soli cinque minuti di Ani, la città delle mille chiese dell’operatore torinese Giovanni Vitrotti bastano a mostrare il poco che già nel 1911 restava dell’antica capitale armena.

SPOSTANDOSI in Siria, il focus ha proposto l’intera «trilogia dell’Eufrate» di Omar Amiralay che nel 1970 celebrò con un primo corto in pellicola la costruzione della diga di Tabqa, nel 1974 denunciò le iniquità delle riforme agricole in quell’area e poi, bandito dal suo Paese dopo quest’ultimo film, vi tornò nel 2003 per raccontare il naufragio ideologico del partito Baath con particolare attenzione alla propaganda diffusa nelle scuole dove i piccoli allievi studiano testi in cui si celebra l’opera di Assad: «Nel mio Paese cambiamo le vite ai fiumi, li re-inventiamo Io capisco la tristezza dei fiumi quando li obblighiamo ad abbandonare la culla della loro infanzia, i luoghi in cui hanno amato e stretto amicizie. Ma capisco anche le rivoluzioni che vogliono dominare la natura per il bene dell’essere umano».

Lasciarsi trasportare da un fiume significa confrontarsi con una geografia che cambia, talvolta in modo violento, come racconta Amiralay, la cui casa fu sommersa dalla creazione del lago artificiale di Assad. La perdita e la nostalgia sono dunque dimensioni di una storia che è intervenuta tragicamente nei luoghi percorsi dal focus.

PER ESEMPIO, nel 1976, l’iracheno Kassem Hawal filmò in The Marshes (Al Ahwar) quella civiltà che sorgeva tra paludi e canneti commerciando zucchero e papiro e che fu distrutta da Saddam come conseguenza della Guerra del Golfo. Tale persecuzione ha segnato anche la realizzazione del film di finzione Zaman (2003), ambientato nel delta tra Tigri ed Eufrate da Amer Alwan, montato con le immagini giunte in Europa e sopravvissute al sequestro di parte del girato.

La storia collettiva riaffiora ugualmente nel cinema privato: nel film di montaggio Baghdad Twist (2007), Joe Balass riunisce materiali d’archivio, foto di famiglia e home movies in formato ridotto della comunità ebraica irachena in esilio in cui il ballo sembra unire idealmente l’Occidente e il mondo arabo.

VIAGGIARE sul corso dell’Eufrate è però anche l’occasione per ricostruire storie di un cinema poco conosciuto scoprendo o riscoprendo pionieri come il siriano Nazih Shahbandar, oggetto del film-ritratto Light and Shadows (1994) di Amiralay, Mohammad e Malas, il quale realizzò i primi film sonori tra Siria ed Egitto; o rivedendo opere di valore non meramente documentale quali Nahapet (1977) di Henrik Malyan che ricostruisce tra poesia e dramma le vicende del popolo armeno e Yol (1982) di Yilmaz Güney e Serif Gören il cui affresco sulle persecuzioni subite dal popolo curdo fu premiato con la Palma d’oro (ex-aequo con Missing di Costa-Gavras) e si è compiuto soltanto nel 2017 con il montaggio definitivo all’epoca reso impossibile dall’arresto di Güney.