Prima settimana di festival, mentre le palline dei critici rimbalzano dai diversi giornali (in testa nel giudizio internazionale è per ora il musical di Chazelle La La Land) si comincia a azzardare qualche primo bilancio. Nel consueto appuntamento con la stampa nazionale il presidente della Biennale Paolo Baratta e il direttore della Mostra, Alberto Barbera sono apparsi soddisfatti. Molti obiettivi sono stati raggiunti, a cominciare dal più importante, la nuova sala che copre il buco. E poi il pubblico in crescita, l’ottima accoglienza del programma da parte della stampa americana che ha «promosso» il festival veneziano rispetto a quello di Toronto (invece i commenti sui quotidiani francesi più prestigiosi, Le Monde e Libération sulla qualità dei film sono molto negativi…), le star americane che sono tornate sul Lido in questo primo fine settimana, l’alto numero di biglietti venduti. Anche rispetto alle polemiche nostrane e alle molte critiche – la scelta per la gara di n film come Piuma Barbera è apparso tranquillo rivendicando la decisione presa «insieme a dieci persone». Tutto bene dunque?

Vedremo. Intanto in gara è arrivata Ana Lily Amirpour, giovane regista di origini iraniane cresciuta in America, e nome molto atteso, divenuto oggetto di culto della cinefilia più giovane col film precedente, A Girl Walks Alone at Night, uscito nelle nostre sale qualche mese fa. L’aura del cinema indipendente americano che caratterizzava le peregrinazioni della vampira con chador si avverte pure se in chiave più spettacolare anche qui (il film è stato sviluppato al Sundance di Robert Redford) in un gusto postmoderno che mischia Mad Max, western, gore, fantascienza, i rave chimici, le suggestioni fiabesche.

La protagonista (la modella Suki Waterhouse) viene lasciata nel deserto di The Bad Batch, Il lotto cattivo, dove la legge degli Stati uniti non vale più. Uomini e donne si aggirano feroci, una comunità di cannibali la cattura, lei ci rimette un braccio e una delle sue belle gambe ma riesce a fuggire, salvata da un eremita che raccoglie rifiuti nel deserto – irriconoscibile Jim Carrey ammutolito. È con lui che arriva a Comfort, la comunità opposta, dove si mangiano spaghetti e non carne umana, governata da un santone che ha intorno giovani fanciulle vestite di bianco tutte incinte (è Keanu Reeves). Il sogno lo devi fare entrare dentro di te predica suadente mentre i corpi oscillano al ritmo techno questo cappellaio poco matto spacciatore di un lusso che ricorda i film dei mafiosi. La ragazza cerca vendetta finirà per rapire la figlietta adorata del capo cannibale, un cubano clandestino tatuatissimo (Jason Momoa, Il trono di spade), sparando alla mamma della bimba un colpo in testa. E però il tipo nonostante le pessime pessime abitudini alimentari è un cavaliere macho molto sexy…«Devi imparare a guardare le cose» le ripete.

Già perché in quel paesaggio apocalittico l’eterno orizzonte del mito (americano) si rovescia come se Alice saltasse due volte lo specchio ritrovando il coniglio arrostito dalla sua improbabile famiglia come gesto di rivolta contro un sogno che addormenta (no, non è decisamente un film vegano questo). Il clandestino finito nel lotto sbagliato per il suo statuto mangia i gringos ma quel bianco accecante di pasticchine e promesse di felicità su cui regge il sistema di Comfort è il vero pericolo: basta addormentare le coscienze, cullarle dolcemente (non si erano stroncati i movimenti rivoluzionari con le droghe?) assuefarle a una specie di gioia collettiva senza tempo nella quale si creano nemici e terribili carnivori.
Amirpour nel tempo dilatato del suo mondo distopico, vagamente in acido dall’inizio alla fine – potrebbe essere tutto un «bad trip» – dissemina tracce del contemporaneo, dei paradossi e dei luoghi comuni del nostro tempo.

Un racconto della realtà spostato nell’immaginario, in una dimensione fantastica che ne esaspera gli spigoli, e che non sfugge a toni un po’ naif, quasi che la regista non riesca a controllare per intero l’impianto delle sue suggestioni. Acide ma non abbastanza.