Nelle campagne irlandesi del Donegal della prima metà dell’Ottocento, il contadino Coll Coyle uccide durante un litigio il figlio del padrone ed è costretto a fuggire oltre oceano. Dopo una traversata drammatica arriverà in America unendosi alle migliaia di suoi connazionali emigrati nel Nuovo Mondo in cerca di una nuova vita. Esordio italiano di Paul Lynch, già critico cinematografico dell’Ireland’s Sunday Tribune e scrittore tra i più affermati della nuova scena letteraria irlandese, Cielo rosso al mattino (66thand2nd, pp. 234, euro 17) è un romanzo potente che, muovendo da una storia personale di disperazione e vendetta, e evocando una strage di migranti avvenuta all’epoca a Philadelphia, affronta temi attualissimi quali la globalizzazione, l’immigrazione e il razzismo. Lo fa inoltre con uno stile limpido e visionario che fonde in modo inestricabile gli accadimenti umani al respiro della terra e degli elementi, che è valso a Lynch l’accostamento a Cormac McCarthy. Il romanzo sarà presentato dall’autore questa sera alle 20 a Roma presso la Libreria Altroquando, insieme a Luca Briasco.

«Cielo rosso al mattino» racconta una pagina drammatica della lunga storia dell’emigrazione irlandese verso gli Stati Uniti: è una storia ancora attuale?
Senza dubbio, ma soprattutto una storia che parla al presente da più di un punto di vista. Prima di cominciare a scrivere questo romanzo avevo visto un documentario sul cosiddetto massacro del «Duffy’s Cut», l’uccisione di 57 operai immigrati dall’Irlanda avvenuta nel 1832 a Philadelphia, dopo che in un cantiere della ferrovia dove lavoravano si era diffusa un’epidemia di colera. Quella vicenda terribile, mai chiarita del tutto, mi ha conquistato dolorosamente. Mi aveva colpito anche perché non parlava solo di un’epoca e di una storia lontane. Gli irlandesi delle ultime generazioni, compresi anche molti miei amici e i miei fratelli, sono stati vittime della crisi economica e in molti hanno ripreso la strada dell’emigrazione verso gli Stati Uniti. Perciò ho sentito che il libro poteva costituire una sorta di nuova mitologia per coloro che tornavano a traversare l’Atlantico. L’altro motivo di attualità è che però proprio noi, come se avessimo dimenticato del tutto la nostra storia, stavamo rischiando di diventare razzisti.

Cosa stava accadendo nel suo paese?
Mentre scrivevo il romanzo la crisi dei migranti non aveva ancora raggiunto la drammaticità che conosce oggi. Ma in Irlanda si era già aperta una fortissima discussione sul fatto che si dovessero o meno porre dei limiti all’accoglienza. Stavano montando polemiche e proteste dagli accenti sempre più chiaramente razzisti. In questo contesto, evocare il massacro del «Duffy’s Cut» significava ricordare a tutti gli irlandesi un’epoca, nemmeno poi così lontana, in cui al posto di quei rifugiati e quegli immigrati il cui arrivo destava tanta preoccupazione c’eravamo proprio noi. Ho cercato di spiegare che malgrado a molti i siriani o i rifugiati africani appaiano come provenienti da un «altrove» che non ci riguarda, gli «altri» siamo sempre e anche tutti noi.

Il mondo selvaggio del Donegal, immerso in una sorta di feudalesimo senza fine, da cui fugge Coyle non è però troppo diverso dalla «Terra promessa» su cui sbarca e in cui vengono selezionati solo «gli uomini forti e senza famiglia» per contribuire alla costruzione del paese. Un cerchio di sfruttamento sembra chiudersi intorno a lui.
Credo che dal mio libro emerga una sorta di esplorazione del potere inteso in senso darwiniano. La storia prende avvio nel contesto limitato di un villaggio del Donegal, dove i padroni della terra possono effettivamente tutto sui loro dipendenti. Ma, mano a mano che la vicenda si sviluppa, dopo che la scena si trasferisce in America, quel tipo di dominio pressoché totale sugli individui verrà assunto da forze ancora più vaste. Il vissuto irlandese del protagonista viene assorbito da quello americano un po’ come la cultura degli immigrati che arrivavano dall’Irlanda è stata inglobata da quella statunitense. E come, più di recente, l’economia del mio paese è stata fagocitata da quella globale. Un potere più grande ne mangia uno più piccolo e con esso travolge i destini degli individui.

Quanto allo stile, il timbro narrativo e le immagini evocate nel romanzo hanno un evidente respiro cinematografico. Una scelta consapevole?
Credo che nel libro emerga una forte influenza del jazz, della pittura espressionista e naturalmente del cinema. Molto prima di cominciare a scrivere romanzi, dopo aver visto un film di Robert Bresson, uno dei registi che amo di più, mi sono ritrovato a pensare che se avessi mai scritto qualcosa in forma narrativa avrei voluto che assomigliasse a una sua opera. È uno stile che si fonda sui comportamenti delle persone, ma che ha anche un fortissimo afflato spirituale. Oggi, da scrittore, cerco di far lavorare i miei lettori, non di spiegargli tutto, ma lasciare che si chiedano cosa sta succedendo in base ai passi che seguono i personaggi. La mia immaginazione è fortemente visiva e la prima idea di un romanzo è sempre annunciata da una serie di immagini. Quando poi comincio a scrivere lo faccio prima di tutto per cercare di entrare dentro queste immagini e capirne il significato più profondo.