Dallo sfarzo per poche sale del 70mm a una prima globale per schermi piccoli come quelli del telefonino. Dopo aver rilanciato con The Master quel formato extralarge di pellicola dato quasi per estinto (e in cui Tarantino ha girato il suo nuovo film, The Hateful Eight) Paul Thomas Anderson disegna in modo opposto l’uscita del suo nuovo lavoro.
«Ecco, questo è Junun, il film che abbiamo fatto durante il nostro viaggio in India. Collegalo ai tuoi altoparlanti e metti il volume al massimo, anche il tuo vicino deve sentirlo!!!». Così diceva una mail firmata Paul Thomas Anderson che hanno ricevuto tutti gli abbonati di Mubi, il 9 ottobre scorso. In contemporanea con una proiezione effettuata nella sala concerti dell’Alice Tully Hall al New York Film Festival, il nuovo film di Anderson veniva distribuito online, dove rimane oggi disponibile agli spettatori di tutto il mondo per la modica cifra di $ 4.99 ( il costo di un mese di abbonamento allo streaming service dei cinefili).

 

 

Si tratta di una prima volta sia per Mubi, che ha giocato quest’esclusiva globale sul culto di PTA che per il regista, in genere molto «presente» quando si tratta dei modi e dei supporti di diffusione dei suoi lavori. Ma Junun è un oggetto che, almeno in superficie, non ha molto a che vedere con il Paul Thomas Anderson «importante», fuori scala, a cui ci hanno abituati Boogie Nights, Il petroliere, The Master e Inherent Vice, se non per la presenza di uno dei suoi collaboratori più stretti, il chitarrista dei Radiohead Jonny Greenwood.

 

 

 

 

È stato Greenwood, autore delle colonne sonore di parecchi dei film di PTA, infatti, a invitare il regista a seguirlo in un viaggio in India per la registrazione di un disco realizzato insieme al compositore israeliano Shye Ben Tzur e a un gruppo di musicisti indiani riuniti per l’occasione sotto l’etichetta Rajasthan Express. Il documentario di 54 minuti, girato da Anderson con tre collaboratori su piccole telecamere digitali (pare che una parte più high tech dell’equipaggiamento sia rimasta bloccata alla dogana e quindi inaccessibile durante le riprese), è ambientato nella fortezza di Mahrangarh, che sovrasta Jodhpur, la città blu del Rajasthan, (per via delle case dipinte d’indaco che circondano il forte). In questo teatro magnifico, tutto stanze decoratissime come scatole una dentro l’altra, (Kipling definì la fortezza «un’opera realizzata da giganti»), Anderson lavora d’istinto – dall’interno di un circolo di musicisti, con un movimento di macchina circolare, per poi uscirne, isolarli in gruppetti separati, riprenderli mentre si riposano visto che è venuta meno l’elettricità, accompagnarli in alcune brevi visite per la strade della città e/o farsi trasportare, anche con l’aiuto di un drone, fuori dalla finestra e nel cielo sopra la fortezza dove volteggiano colombe ma anche e falchi abituati da decenni a essere sfamati dai guardiani di Mahrangarh.

 

 

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La tensione verticale, l’ariosità delle riprese esterne, la luce del deserto che entra da fuori e la semplice, elaboratissima bellezza del posto sono tutt’uno con la qualità ipnotica e trascendente della musica. Ma Junjun non riflette i risvolti mistici del viaggio indiano dei Beatles o delle collaborazioni tra George Harrison e Ravi Shankar. Durante la presentazione al New York Film Festival, PTA ha detto che uno dei modelli di Junun è stato il film concerto Jazz on a Summer Night realizzato da Bert Stern durante l’edizione 1958 del Newport Jazz Festival.

 

 

 

E, anche qui, il tono è più leggero, meravigliato, intuitivo – le note e le immagini sono attraversate da una felice coesistenza di passato e presente, Oriente e Occidente, in un’epifania che ricorda alcuni film musicali di Jonathan Demme, regista che PTA ha spesso definito come uno dei suoi maestri. Il documentario come la registrazione gioiosa di un happening e dell’atmosfera che lo circonda.

 

 

 

In questo spirito di world collaboration eletta (o forse perché per lui «il cinema» rimane un’altra cosa) Anderson ha scelto di non darsi il credit di regista.