Catturare un dialogo attraverso la temporalità delle lettere, legittimare con le immagini il bisogno identitario di uno stato rifiutato dal resto del mondo. Eric Baudelaire da molti anni, attraverso la fotografia, l’arte e il cinema, domanda continuamente allo spettatore di non credere a tutto quello che vede ma di chiedersi che cosa sta guardando e di essere trascinati in una temporalità cinematografica dove tutto è possibile. È il caso di Letters to Max, in Concorso a Filmmaker dove il rapporto sonoro/immagine, anche quando può sembrare illustrativo, di fatto è dato da assonanze, ironia e scarti che implicano un lavoro più che mai dinamico dello spettatore. Il film di Baudelaire infatti è un viaggio in Abhkazia, ex territorio della Georgia, ora piccolo stato non riconosciuto legalmente dal resto del mondo, nel quale la macchina da presa si posa sui suoi territori mentre le voci del regista e dell’amico diplomatico Max Gvinjia raccontano l’eterna attesa di un luogo paradossale.

Il suo primo viaggio in Abhkazia risale al 2000…

Esatto, avevo 26 anni e l’idea di fare qualcosa come fotografo, insieme a un amico scrittore, in tre paesi non riconosciuti dell’ex Unione Sovietica. Così viaggiammo in Transnistria (ex Moldavia), in Nagorno-Karabahk (ex Azerbaigian) e infine verso l’ Abhkazia. Abbiamo trascorso un mese lì, all’epoca non c’erano hotel, dormivamo in un ex accademia militare e Max venne ad accoglierci con una maglietta con scritto «I love New York». Così l’ho conosciuto e negli anni successivi, quando tornavo da lui, cresceva dentro di me la consapevolezza che avrei un giorno fatto qualcosa in quei luoghi.

Come ha strutturato nel corso del tempo il suo lavoro?
Per prima cosa non doveva essere un film. Ero certo che le buste tornassero prima o poi con il timbro «Questo stato non esiste» e volevo fare una scultura delle pile di lettere tornate al mittente. Quando poi mi rendevo conto che probabilmente erano arrivate a destinazione, ho continuato il carteggio come se fosse uno script. Immaginavo le risposte di Max e andavo avanti. Quando sono andato in Abkhazia per filmare, ho incontrato Max e solo allora ho conosciuto le sue risposte.

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Perché ha scelto di comunicare con Max tramite un dispositivo «rischioso» come la lettera?

Se ho spedito delle vere lettere non è certo per una forma di nostalgia anche perché le lettere a Max sono scritte al computer e non in bella grafia da antico epistolario. È chiaro che una mail sarebbe subito arrivata ma l’ufficio postale è uno degli attributi di uno stato e quindi, se le lettere fossero arrivate, la possibilità di un dialogo fra Francia e Abhkazia sarebbe stata evidente. Inoltre credo moltissimo nelle circostanze che si creano quando si avvia una conversazione: ricevere una lettera significa sedersi su una poltrona, aprire una busta, osservare i fogli, si creano così delle dinamiche diverse rispetto alla lettura su un computer.

Lei è nato negli Stati uniti e cresciuto in Francia, ha lavorato con un maestro radicale del cinema giapponese come Masao Adachi e con Letters to Max ha indagato le questioni identitarie di una regione semi-sconosciuta. Qual’è il suo concetto di nazionalità? 

Dopo questo film sono diventato più consapevole di quanto sia sottile e fragile il concetto di nazione. Quando cresci in Francia, come è accaduto a me, o in un’altro stato della «vecchia Europa» pensi che la nazionalità sia qualcosa di naturale perché esiste già da secoli. Viaggiare in uno stato «nuovo» come l’Abkhazia, pur non essendo riconosciuto, mi ha fatto capire quanto sia friabile la finzione che viviamo. Credo che sopravvivere a eventi drammatici, come la guerra, sia necessario per forgiare un’anima collettiva. Dieci anni prima del mio arrivo, l’idea di Abhkazia era una sorta di reazione alla guerra, di risposta alla sofferenza e quando sono tornato in Francia ho compreso che sono i rituali a tenerci uniti come popolazione.

 

Dunque l’essenza del termine «nazione» deve, a suo avviso, essere ripensata?
Il problema dell’immigrazione oggi, le questioni dell’Unione Europea hanno scosso le vecchie certezze. Che cosa significa essere una nazione quando non ci sono confini visibili? Che cosa significa essere uno stato quando il mondo di oggi va in frantumi? L’1% della popolazione mondiale possiede ricchezze che basterebbero a governare uno stato. Sono cittadini come me e te? Non pagano tasse, i loro soldi sono in altri paesi. Queste sono solo alcune delle domande che mi sono fatto durante la lavorazione del film.

Letters to Max mi ha fatto pensare a Hill of Freedom, ultimo film di Hong Sang Soo dove una serie di lettere vengono scombinate e la protagonista è costretta a creare un nuovo ordine temporale…
Non ho ancora visto il film ma questo concetto mi interessa moltissimo. È quello che accade anche nell’opera teatrale Woyzeck di Georg Buchner: nessuno conosce l’ordine preciso delle scene ed è il regista che deve decidere come posizionarle. Anche Max ha sicuramente ricevuto le mie lettere in maniera sparpagliata, e, in fondo, potrei dire che è stato proprio il Caso a dare vita e forma al mio film.