Davanti all’entrata del Centre Pompidou le code di persone in attesa di passare i controlli del piano vigitpirate diventano ogni giorno più lunghe. È tempo di vacanze, di gruppi scolastici in gita, di turisti pasquali, nei metrò parigini si moltiplica il movimento di valigie, chi parte, chi arriva sotto al cielo grigio di pioggia sottile e improvvisi lampi di luce. Chi viene solo alle proiezioni del Cinéma du Reel si lamenta col biglietto in mano di una proiezione iniziata ormai da qualche minuto, altri suggeriscono di aprire in varco in più dedicato solo al pubblico del festival, certo il Pompidou dovrebbe porsi la questione rispetto a una manifestazione di riferimento a livello internazionale permettendone una specificità di luoghi – quest’anno diverse proiezioni sono al Forum des Images, nelle nuove Halles, e sono quelle più piacevoli a livello anche di qualità della sala, degli schermi ecc…

Ma è una questione vecchissima, purtroppo, che lega appunto l’identità della manifestazione al Beaubourg al cui interno è nata 40 anni fa, ispirato da Jean Rouch e voluto dalla allora responsabile del settore audiovisivo del Centro Marie-Christine de Navacelle. Qualche anno più tardi, nel 1984, arriva il l’associazione «Amis du Réel», presieduta da un altro dei «padri» del documentario, Joris Ivens, che insieme alla BPI – la Biblioteca pubblica – continua a gestire il festival il cui budget dovrebbe essere di 450mila euro (tra sovvenzioni pubbliche e qualche sponsor privato).

Poco se si pensa alla quantità di film, di ospiti, di invenzioni, di «immagine» a livello internazionale – un riferimento per i professionisti in tutto il mondo – specie se paragonato a certi nostri super-finanziati festival di «pizza&fichi» senza alcuna idea né ritorno, grancasse di poco interesse – del resto che dire di un «sistema cinema» che premia coi David di Donatello – assai applauditi da più parti come fortemente innovativi, una cinquina di documentari che, basta sfogliare adesso il programma del prossimo Hot Doc di Toronto, altro appuntamento internazionale prestigioso, non contiene nessuno dei titoli selezionati in Canada o altrove e però a prendere i punti (bingo!) saranno proprio quelle mediocri localissime proposte.

Il festival, in attesa del finale sabato riparte con la seconda retrospettiva, il collettivo giapponese di Ogawa Pro (ne ha scritto qualche giorno fa su queste pagine Matteo Boscarol) che segue al bel focus dedicato all’artista e filmmaker inglese Tacita Dean, scelta non semplice ma anche interessante per interrogare le «immagini in movimento».
Dean usa la pellicola ma questo non vuol dire che le sue immagini, realizzate per essere installate possano tutte passare in sala, proiettate su schermo a un pubblico seduto invece che in dialogo con altre cose, in formati diversi, in una fruizione frammentaria. Altre invece, come Uncles, conversazione con Basil Dean e Sir Michael Walton, entrambi zii dell’artista e tra i «pionieri» dei londinesi Ealing Studios, diventano una narrazione «dall’interno» della storia del cinema britannico le ossessioni di Hitchcock, Carol Reed, Paul Robeson, l’attore black che viene bandito dopo l’accordo Stalin-Hitler perché comunista.

Sia i 40 anni che la retrospettiva del 68 – ieri alla Cinématheque si è aperto l’omaggio ai cinquant’anni della Quinzaine, col magnifico Nostra signora dei turchi di Carmelo Bene – hanno rimesso al centro cosa significa filmare oggi la realtà in un presente che si affolla di immagini e, al tempo stesso, ne diluisce il senso (politico, poetico) in una costante frammentazione. È un po’ quanto accade in uno dei film nel concorso francese, The Image You Missed del giovane Donal Foreman, trentenne irlandese (di Dublino) prodotto in Francia da Nicole Brenez e Philippe Grandieux.

Ci sono le immagini del padre Arthur MacCaig, filmmaker (The Patriot Game considerato dalle autorità britanniche «un attentato alla Corona») arrivato dall’America in Irlanda dove scopre la guerra nell’Irlanda del nord di cui le sue immagini raccontano violenza e natura, un conflitto di classe non una guerra religiosa (protestanti e cattolici) e una ribellione al colonialismo britannico. E quelle del regista che inizia a girare quando è un ragazzino. Quel figlio, nato si intuisce per caso e in una relazione «più di amicizia che di amore», il padre lo vede poco, MacCaig vive a Parigi, cerca di barcamenarsi tra le sue ambiziosi di cineasta militante per la causa irlandese e il lavoro «alimentare» per la televisione francese. Il ragazzo inizia filmare prestissimo pure lui insieme agli amichetti, è forse il suo modo di rispondere a questo vuoto che si è riempito di un nuovo rifiuto.

L’immagine che hai mancato del titolo diviene dunque quella del padre in un forsennato montaggio di archivi di padre e figlio che mescolano aspetti privati e la narrazione del conflitto irlandese dalla parte dell’Ira, nei quartieri cattolici più poveri, che unisce una intera comunità. È un racconto empatico, di denuncia e di partecipazione, cinema quasi diretti, newsreeel. Ma il figlio cerca lì una dimensione privata, un controcampo, qualcosa che parli a sé, che gli riveli altri aspetti del padre. Non era però ciò che interessava a MacCaig, probabilmente. La sua posizione era chiara: essere accanto a chi combatte per l’indipendenza, mostrare una guerra in piena Europa smantellandone le letture dominanti.

C’è qualcos’altro però, qualcosa di più importante: il padre e il figlio, è di questa «mancanza» che le immagini sembrano essere controcampo. O forse è la stessa mancanza il controcampo alle immagini – e un po’ il suo limite – che conduce il figlio a costruire piani simili a quelli paterni e a confrontare il suo «essere politico» oggi filmando Occupy Wall Street con il cinema politico del padre. Un’altra epoca, la diretta delle guerre obbliga a riposizionare lo sguardo.
E qui, oltre e intorno la trasmissione (mancata?) di padre e figlio il film trova il proprio compimento: non una risposta ma un interrogativo aperto, quanto è necessario oggi per confrontarsi col mondo.