Tanti giovanotti a giugno sparivano dalle proprie città. Le mete erano quelle classiche dell’estate: Riccione, Rimini, Cattolica. Andavano a fare i bagnini da spiaggia. Senza attestati e senza titoli. Bastava stare a galla e nuotare, in qualsiasi stile. Provenivano dalle province costiere del Sud e avevano col mare un rapporto familiare. Quello del bagnino era considerato un lavoro generico, al pari dello scattino-fotografo che macinava chilometri di arenile con la Bencini per prendere istantanee. La riviera pullulava di questi e di quelli. Alla fine della stagione, di ritorno, qualcuno si portava la ragazza conquistata in loco, romagnola se non straniera. Ragazze bionde e longilinee, appariscenti insomma, da esibire sul corso all’ora del passeggio e far schiattare d’invidia i conoscenti che le squadravano increduli. Dopo sette giorni se ne tornavano e la relazione, come da previsione, si concludeva lì. Negli anni ’60 non era affatto difficile, possedendo uno spirito di adattamento, inserirsi in ambienti estranei e acquisire gradualmente una certa posizione. I più intraprendenti partivano per periodi prolungati che non si esaurivano nell’arco di qualche stagione o di un anno. Il viaggio nelle capitali occidentali finiva per avere una funzione pedagogica che formava un ventenne. O, all’opposto, lo faceva perdere. In ogni caso, avventurarsi nel clima della Swinging London o della cultura hippie della libertaria Amsterdam apriva a una concezione di vita decisamente innovativa, agli antipodi di modelli sclerotizzati da tradizioni secolari e fino ad allora supinamente condivisi. Ma non era da tutti assumere un’iniziativa di rottura. Anche se, più o meno tutti, padroneggiavamo quel senso di avventura che per prima cosa ci poneva in contrapposizione alla casa che abitavamo coi genitori, vista come una gabbia da cui bisognava sgusciare al più presto. La vera emancipazione cominciava con quel passo da compiere, inevitabile. Il viaggio avveniva in autostop o con l’utilitaria. All’Aja, la capitale politica olandese bagnata dal Mare del Nord, si era stabilito Fulvio che lavorava come stampatore presso un laboratorio fotografico. Il nostro amico rappresentava un valido pretesto per partire, in tre, a bordo di una Fiat 500 di colore aragosta del 1969. L’indole avventurosa non corrispondeva tanto al fatto di potersi trovare in una città lontana, ancorchè dal respiro internazionale e non priva di sorprese, quanto allo spostamento, per raggiungerla, sostenendo il ruolo del viaggiatore con tutti gli imprevisti della strada. Ficcati fra borsoni e zaini per quasi duemilacinquecento chilometri attraverso quattro stati in una macchina di neppure tre metri e dormirci dentro due notti… beh, era già un’avventura.