L’Alighieri non avrebbe mai potuto immaginare che a distanza di tanti secoli il suo viaggio iniziatico sarebbe stato raccontato in lingua wolof – una lingua oggi parlata in Senegal e paesi confinanti dell’Africa occidentale subsahariana. Eppure così è avvenuto, ora che lo scrittore Pap Khouma ha tradotto appunto in wolof l’intero Canto I dell’Inferno.
Il nuovo testo verrà presentato e letto il 30 luglio prossimo alla Tomba di Dante a Ravenna, in una serata speciale intitolata Di soglia in soglia e dedicata all’amicizia Ravenna-Dakar, grazie agli straordinari teatranti dell’una e dell’altra parte, il compianto Mandiaye N’Diaye e Marco Martinelli con Ermanna Montanari, fondatori del Teatro delle Albe.
L’evento appare significativo all’interno della ricca costellazione di celebrazioni dantesche del 2021, poiché dona una nuova lingua, e perciò una nuova vita, al poema nazionale italiano che potrà così intraprendere un inedito viaggio nella contemporaneità, aprendo ponti al dialogo fra culture diverse e permettendo una singolare crescita di scambio e comunicazione.
L’idea di questa traduzione, racconta Pap Khouma, è venuta a Cristina di Giorgio, direttrice dell’Istituto italiano di cultura di Dakar che ospiterà la recita di Dante in wolof in ottobre, insieme a una mostra di opere di artisti senegalesi create appositamente per l’occasione e ispirate al poeta. Abbiamo intervistato lo scrittore a Milano, mentre sta ancora apportando gli ultimi ritocchi al suo lavoro.

La sua impresa incuriosisce e appare davvero avventurosa. Come l’ha vissuta dall’interno della sua sensibilità di scrittore che, avendo sperimentato più lingue, ha anche più anime, come ebbe a dire un antico poeta italico?
Con profonda emozione. Come un’avventura eccezionale: ma anche con un particolare senso di responsabilità per il compito, che mi viene affidato, di interpretare un testo così importante per gli italiani, un pezzo vivo di storia che è nel sangue di tutti gli italiani. Ho avvertito un problema pure etico, che ha reso il mio lavoro delicato e solitario. Uno crede di conoscere Dante se vive in Italia e vive di libri e in mezzo ai libri, come capita a me. La Divina Commedia ti arriva all’orecchio con mille allusioni, idiomi, citazioni, perché Dante Alighieri è nel dna degli italiani, viene continuamente chiamato in causa nella loro conversazione, quasi fosse un membro dell’entourage domestico. Perciò anch’io ho acquisito familiarità con lui, sebbene non sia andato a scuola in Italia. Però non avevo nessuna conoscenza del testo; quando mi sono affacciato alla Divina Commedia, mi sono reso conto che Dante parla un’altra lingua. E ora che mi ci sono addentrato, provo un’intensa soddisfazione dinanzi alla sua ricchezza di espressione, un godimento nello scavare fino a raggiungere la pepita d’oro, un’emozione legata alla bellezza del ritmo e del verso.

Che strada ha scelto di percorrere per entrare nel testo dantesco tanto da poterlo interpretare e rivestire di parole nuove. Quale il metodo adottato per cogliere e poi ricreare le terzine dantesche?
Sono sempre rimasto vicino al testo originale. Non ho fatto ricorso ad altre traduzioni – ad esempio, in francese, mia seconda lingua dopo il wolof – perché non volevo intermediazioni di sorta, se non per i commenti esplicativi di cui è normalmente fornita ogni edizione italiana della Commedia. Ho ascoltato molte letture orali, prima fra tutte la Lectura Dantis di Sermonti, ma anche quella di Benigni, che è molto godibile. Amici poeti mi hanno aiutato a cogliere la struttura metrica dantesca, ma le decisioni fondamentali le ho prese in solitaria: come quella di lasciar perdere l’endecasillabo e la rima – irripetibili in wolof – e di abbandonarmi al ritmo per riprodurlo in altra gamma sonora e diverso contesto letterario. Quando si affronta un simile lavoro, si misura appieno il senso e il valore della diversità e, insieme, l’unicità di ogni singola tradizione.

Forse nel suo wolof ha dovuto scegliere fra più varietà di linguaggio e, ancor più, di tradizione letteraria?
Mi si è posto anche questo problema. Il fiorentino di Dante, come mi ha insegnato la linguista Cristiana Brunetti dell’Università La Sapienza di Roma, è eminentemente letterario: perciò ho scelto una varietà di wolof colto, proprio della tradizione letteraria e oratoria. Ho cercato di evitare al più possibile i prestiti arabi e francesi che abbondano nell’uso comune wolof, mirando a selezionare un linguaggio con un proprio carattere letterario.
Traducendo, senza trascurare la connotazione allegorica di Dante, è stato necessario badare alla forma perché portatrice di senso. Talvolta ho fatto ricorso a uno stile declamatorio o celebrativo, come quando Dante incontra Virgilio e lo saluta con una sorta di panegirico; altre volte, ad esempio quando si imbatte nelle fiere, ho adottato lo stile che usano i lottatori per intimorire l’avversario – per intenderci, un po’ sul tono altisonante del mitico pugile Muhammad Ali sul ring – e in questo mi ha confortato l’esempio di certe composizioni di Senghor. Nell’insieme, questa traduzione ha costituito per me un’esperienza al confine del misticismo, come se il sommo poeta mi tenesse gli occhi puntati addosso.

La grande diversità delle due lingue e dei loro rispettivi contesti nello spazio e nel tempo ha creato ostacoli?
Più che ostacoli, parecchie difficoltà. Tanto per fare un esempio, in wolof non esiste un vocabolo per indicare il lupo, che è un animale sconosciuto in Senegal. La lupa che incontra Dante nella selva oscura è diventata till, uno sciacallo. Invece ho trovato un corrispondente perfetto per il termine collettivo «fiere», che in wolof è mala. E poi in lingua wolof anche gli animali hanno un cognome, cosa che Dante non avrebbe mai immaginato.
È stato complicato pure parlare di «montagna», dato che in Senegal l’orizzonte è piatto e non ci sono vere e proprie montagne (il punto più alto del paese è a 531 metri): in wolof si chiama tund qualsiasi rilievo, da una modesta collinetta al monte Everest. Anche la denominazione «inferno» è stata difficile da rendere, e ho preferito chiamarlo safara, ossia «fuoco». In wolof certi concetti o situazioni hanno molteplici denominazioni, che risultano perciò assai rigorose: ad esempio, l’espressione «selva oscura» è diventata più specifica in wolof, guadagnando in precisione, ma d’altro canto perdendo in polisemia. In certi casi ho dovuto ricorrere a una traduzione culturale, come per «nel mezzo del cammin di nostra vita», reso con il corrispettivo di «a trentacinque anni».

E dal punto di vista stilistico sono stati seguiti esempi tradizionali esistenti?
Comeho già anticipato, il ritmo è stato il mio obbiettivo principale, e sotto questo profilo le culture africane mi hanno fornito un buon supporto, poiché sono impregnate di ritmo; in wolof il rap è il ritmo con cui si invocano gli spiriti, così come il ndepp è il rito relativo. Il cosmo dantesco dell’oltretomba si può rendere ricorrendo all’immaginario africano wolof.
D’altro canto, le tradizioni oratorie di alta cultura in cui si esprimono gli aristocratici griot dell’Africa occidentale (soprattutto Mali) mi sono servite per desumere stili da panegirico: e qui mi è stato molto utile l’aver trascorso in Senegal i primi 22 anni della mia vita, e l’aver appartenuto ai Khouma, un ceppo famigliare dalle importanti tradizioni letterarie orali. La lingua wolof è stata trascritta in caratteri latini solo in tempi relativamente recenti, mentre per oltre mille anni si sono usati i caratteri arabi.
La tradizione sufi, fortemente presente in Senegal, mi ha aiutato ad ambientare stilisticamente la mia versione del Canto I dell’Inferno dantesco, la cui prima terzina così suona nella mia lingua wolof:

Bunuyegsi ci sunugennwàlludund /

Dama jékkitàbbi ci gottbulëndëm /

Ndaxdëkk ci jubadibafafgëlëm
(Nel mezzo del cammin di nostra vita /

mi ritrovai per una selva oscura, /

ché la diritta via era smarrita).