Le tombe senza nome a cui allude il titolo del nuovo film di Rithy Panh sono quelle dei suoi familiari e di moltissimi altri milioni di cambogiani uccisi come loro negli anni del regime dei Khmer rossi, dall’aprile del 1975, quando l’esercito di Pol Pot marciò sulla capitale Phnom Penh e conquistò il potere in Cambogia.
Scuole e ospedali vennero chiusi, la moneta abolita, la cultura proibita mentre iniziava il genocidio con le deportazioni di massa dalla città alla campagna, l’obiettivo erano gli intellettuali, i borghesi, ma anche i contadini dei villaggi persino i più sperduti, tutti coloro che venivano individuati come e minacce al progetto di «trasformazione» del Paese.

«Non si capiva cosa avessero in testa» dice oggi un anziano contadino sopravvissuto a quell’epoca, senza quasi più denti e con lo sguardo lontano. Ricorda tutti quelli che arrivavano da Phnom Penh, sperduti, confusi, ricorda la fame, terribile, crudele. Loro, i contadini, avevano provato a spiegargli che non si dovevano mangiare certe radici, che dovevano cercare quelle dei banani ma gli altri non ascoltavano: «Quando si ha fame si mangia tutto cotto o crudo» e mangiavano e morivano avvelenati dalle radici sbagliate, divoravano insetti e gamberi, il poco riso col cucchiaio che dovevano sempre tenere con sé: «Una ciotola serviva per 30 persone e chi mangiava di nascosto, o rubava le patate veniva ucciso. Eravamo terrorizzati, lo chiamavamo Sbat, uno stato che abbiamo trasmesso a figli e nipoti».

Panh aveva tredici anni quando i Khmer rossi lo hanno preso insieme tutta la famiglia deportandoli nella regione di Battambang, in quella campagna dove si doveva imparare a sopravvivere, è riuscito a salvarsi arrivando in Thailandia e poi in Francia. Gli altri sono scomparsi, morti, perduti chissà dove in qualche parte della Cambogia, in quella terra verde di giungla, di templi, dove le anime dei morti continuano a vagare arrabbiate nella loro solitudine.
Da qui comincia il nuovo viaggio nel regista in quella storia personale e collettiva su cui ha fondato la sua poetica e che continua a esplorare film dopo film. Se gli inizi come S21: La macchina di morte dei Khmer rossi era la voce dei carnefici che cercava costringendoli a un confronto con le loro azioni, Panh ha ora spostato la narrazione sulla propria esperienza, è divenuto l’io narrante, una voce che dichiara insieme al vissuto l’esigenza di continuare la costruzione di questa «memoria comune», di renderla Storia condivisa. «I morti ci stanno aspettando, noi li sogniamo ma li mettiamo da parte presi dalla frenesia della vita. Volevo essere lì con loro, lungo le strade, i fiumi oggi, quei villaggi, Trum, Char, dove torno spesso senza avere mai ritrovato le fosse in cui sono stati gettati mio padre, le mie sorelle, i miei nipoti» dice il regista

E di fronte a un’immagine «mancante» è ancora una volta la parola lo strumento della sua indagine in questo Les tombeaux sans noms, bella apertura delle Giornate degli autori. Le immagini sono quelle della Cambogia oggi, le parole della voce fuori campo mescolano i testi del regista – il suo libro L’eliminazione scritto insieme a Christoph Bataille che è anche l’inizio per lui della prima persona – e tra gli altri di Eluard e di Jean Cayrol. Monaci che provano a placare gli spiriti, sciamani che li inseguono.
Il passato è qualche vecchia foto in bianco e nero, uno schermo nel mezzo della foresta con migliaia di piedi in marcia, l’anziana maga fa andare il suo pendolo sulla riproduzione della regione, parla con gli spiriti, li sente, ma non riesce a vederli. Dove saranno, ci sarà mai un modo per ritrovarli?

«La natura può essere una tomba ambigua», la terra ha inghiottito gli uomini ma quell’albero, ricorda Panh, gli ha salvato la vita. Lui vorrebbe sapere dove è la fossa comune della madre, dove sono le sorelle, i resti del padre: chiede alla maga, ascolta il vento in questo suo vagabondaggio intimo, doloroso, un elogio funebre e una poesia che di quella Storia ancora non chiusa, spalanca il sentimento di un quotidiano destinato quasi sempre a rimanerne fuori.