Presentato in concorso nella sezione Orizzonti, Borotmokmedi (The Criminal Man) è il secondo lungometraggio di Dmitry Mamuliya, regista e scrittore georgiano di formazione filosofica, che qui racconta il viaggio al termine della notte di Giorgi, minatore alla periferia di Tbilisi. Un giorno, l’uomo assiste da lontano a un omicidio e, dal telegiornale, scopre che la vittima era il portiere della nazionale georgiana. Non sarebbe la prima volta che uno sportivo rimane vittima di una spedizione punitiva. Dopo il campionato del mondo del 1994, il difensore della nazionale colombiana Andrés Escobar fu assassinato à Medellín probabilmente a seguito dell’autogol che contribuì all’eliminazione della squadra ed ebbe effetti sul grosso giro di scommesse clandestine che ruotava attorno alle partite.

PER GIORGI, il delitto a cui ha assistito è come una spaccatura esistenziale che scatena un’ossessione. L’uomo si attacca morbosamente a quanto visto ma non si reca dalla polizia per testimoniare, conduce lui stesso delle indagini e non al fine di scoprire gli assassini o le ragioni del crimine bensì per esplorare il delitto come enigma e fascinazione, come esperienza liminale. Va per archivi e consulta fascicoli di casi risalenti ai primi del Novecento, con fotografie e annotazioni lombrosiane, ne sottrae uno e se lo porta a casa dove lo studia nell’oscurità della sua stanza. Alla morte non accidentale di un compagno di lavoro, inizia a seguire le udienze del processo in tribunale fino alla sentenza, frequenta la moglie dell’assassino, si reca presso la comunità gitana di cui faceva parte il morto, segue una donna con bambino, annichilita e rassegnata, lunga e muta come un menhir.

Giorgi è un personaggio mesmerizzato dal male, un Raskòl’nikov al contrario che prima è investito dall’angoscia per l’assassinio a cui ha assistito e poi finisce, senza un reale motivo, per commetterne uno, perché la violenza è un vortice che inghiotte tutto ciò che incontra sul suo cammino.

IN QUESTO FILM denso di rifrazioni letterarie e diviso in capitoli, il gesto delittuoso non è immediatamente riconducibile a un movente, come ne Lo straniero di Camus, e neppure le immagini simboliche sono associabili a un’interpretazione univoca. Ci sono rapaci silenziosi, uccelli neri che vivono in interni, infinite greggi di agnelli e volpi tenute alla catena: non si tratta di metafore, cioè di immagini che per un meccanismo rassicurante di sostituzione rappresentano qualcosa, bensì di metonimie che aprono alla possibilità di una contiguità associativa, instabile e destabilizzante. Il film infatti è un noir astratto che segue l’erranza di una maschera inespressiva attraverso giorni bui e lattiginosi, in spazi arrugginiti e usurati dalla polvere, dal vapore, dalla pioggia, popolati da un’umanità minerale che lavora e muore nell’inferno di cattedrali industriali in decadimento tra montagne austere. Un paesaggio disperato da fine della Storia.