Tre volti, tre generazioni di attrici in Iran: Benhaz Jafari è una star conosciuta e amata per i suoi personaggi nelle soap televisive; Marziyeh Rezaei non è un’attrice, Jafari Panahi l’ha incontrata per caso convincendosi subito che sarebbe stata perfetta nel ruolo della ragazza aspirante attrice contro i voleri della famiglia; Sharzhad era una star del cinema iraniano prima della rivoluzione messa al bando insieme a molti altri artisti del suo tempo con l’accusa di decadenza morale.

Anche Behruz Vossoughi, di cui nel film vediamo solo il ritratto su una locandina era – ed è ancora – una leggenda, incarnazione pop del «vero maschio» nell’immaginario del Paese, protagonista per Amir Naderi in Tangsir, oggi come il regista di Monte in esilio in America. La storia del cinema iraniano attraversa Tre volti, la nuova regia «fuorilegge» di Jafar Panahi (premio per la sceneggiatura allo scorso Festival di Cannes) che se riesce a opporsi al divieto di girare nulla può contro quello di uscire dal Paese, a meno di non scegliere pure lui l’esilio. Così la sua «sedia» ai festival rimane sempre vuota, un’assenza che come per Sharzhad nel film – di cui senza vedere il volto ascoltiamo la «vera» voce che legge un poema – si fa presenza simbolica per interrogare il senso della libertà dell’artista, il suo ruolo nella società e nel suo tempo.

DIVERSO dai precedenti realizzati più come dichiarazione d’urgenza dopo la condanna, Tre volti continua a mettere alla prova la relazione tra «realtà» e «finzione», con un omaggio esplicito a Kiarostami (Dov’è la casa del mio amico; Il sapore della ciliegia) a cui rimanda il viaggio in macchina del regista e dell’attrice verso il villaggio, in una delle zone remote e povere dell’Iran, dove le persone quando scoprono che i due non sono venuti per dare voce ai loro problemi si infuriano.
Tutto comincia con un video su Instagram, una ragazza disperata per il divieto della famiglia di frequentare la scuola di recitazione a Tehran si rivolge a Benhaz Jafari e alla fine dello sfogo si impicca. Vero? Falso? Panahi esclude un montaggio, l’amica attrice sconvolta lascia il set e lo accompagna a cercare la ragazza. Sul posto scoprono che è malvista da tutti, è troppo indipendente, e soprattutto vuole essere un «saltimbanco» – così chiamano gli attori al villaggio – una donna immorale come Sharzhad che il sindaco ha esiliato nella campagna intorno alle case.

OGNI INCONTRO lungo la strada rivela abitudini, culture, tradizioni radicate da cui affiora la trama della società. Perché non è soltanto un film sul cinema iraniano Tre volti, ma i suoi protagonisti diventano il dispositivo attraverso il quale indagare la storia e il presente. «Le regole le inventano per non risolvere i problemi e le cambiano ogni volta», dice una ragazza. Il potere del controllo, e il suo paradosso, per metterli in difficoltà si deve adottare un punto di vista strabico, quello da cui si pone Panahi, i suoi «Tre volti» che sono tutti volti di donna, la forza vitale in grado di contestare quel patriarcato che nelle sue diverse forme si aggrappa al proprio ruolo con determinazione.
C’è un’immagine molto bella di un toro ferito, il padrone ne esalta le capacità di stallone in grado di fecondare molte vacche nello stesso giorno, è una tragedia dice perché l’indomani le vacche arriveranno al villaggio e il toro non ci sarà.

IL MASCHILE/MACHO è celebrato, il vecchio divenuto padre fiero dei figli avuti da qualche ennesima moglie anche in tarda età vuole regalare a Behruz Vossoughi la pelle della circoncisione di uno di loro, e non comprende i motivi che impediscono all’attore e a Panahi di incontrarsi. Gli uomini parlano, decidono, condannano, sbraitano, aggrediscono. Alle donne sta trovare le strategie giuste con cui aggirare quelle loro regole sempre uguali. Un allenamento duro, doloroso, resistente. Ed è in questo spazio del «femminile» che Panahi pone il suo cinema, illuminando con pazienza i conflitti nelle sfumature, le contraddizioni e anche la bellezza del «suo» Iran a cui nella critica riesce sempre a guardare con amore.