Marabout, bout, bout, bout de ficelle, celle, selle, selle de cheval etc. è una filastrocca tradizionale che diverte i bambini e dove le parole si susseguono per assonanza, senza legame logico, con giustapposizioni inattese. La mostra Carambolages al Grand Palais (visitabile fino al 4 luglio) invita il pubblico a tornare bambino, a guardare le opere per curiosità, senza timore reverenziale, senza chiedersi per prima cosa la data di realizzazione e la loro «appartenenza territoriale». Anche gli esperti d’arte hanno qui tutto lo spazio per interessarsi alle 185 opere esposte, oggetti, quadri e sculture di qualsiasi epoca e regioni geografiche, provenienti da grandi istituzioni, francesi e europee.

Il curatore è Jean-Hubert Martin, il grande erudito che con i Magiciens de la terre (1989) era stato tra i primi ad esporre opere provenienti dal mondo intero. Carambolage è un termine che viene dal gioco del biliardo, un doppio colpo attraverso il quale la biglia del giocatore va a toccarne altre due. Nella prima sala della mostra, un pannello spiega l’intento: «La mostra Carambolages sollecita il vostro sguardo, la vostra immaginazione e la vostra interpretazione per una scoperta ludica e sensibile. Gli artisti sono mossi da un pensiero visivo e traggono i loro riferimenti nell’arte universale. Privilegiano sovente opere atipiche e amano le sorprese. Come qui, le loro scelte non segnalano logiche e categorie della storia dell’arte. La presentazione delle opere si articola in una sequenza continua dove ogni creazione dipende dalla precedente e annuncia la successiva».

I legami dipendono da dettagli, dalla forma, dal soggetto, dal colore. La mostra, con un allestimento che propone un percorso semplice, è una passeggiata nelle rappresentazioni del corpo umano, dalla testa ai piedi. Inizia con una prima sala dedicata a Aby Warburg e al suo famoso Bilderatlas Mnemosyne (una raccolta di centinaia di immagini che comparano posizioni ed espressioni corporali dall’antichità al primo terzo del Novecento, Warburg è morto nel 1929). Mnemosyne è anche il titolo dell’opera di Anne e Patrick Poirier, un piano di città immaginaria esposto sempre nella prima sala, presentata accanto a opere di Errò o al neon di Nannucci, con un interrogativo spiazzante: Listen to your eyes.

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Si parte dalla testa, in questo viaggio nel corpo. Molte opere provengono da civiltà extra-occidentali (Martin è stato anche direttore del Musée des arts africains et océaniques), accanto a artisti contemporanei, Lavier, Annette Messager, Gloria Friedman, Maurizio Cattelan, Sarkis, Christian Boltanski, ma anche Lucio Fontana, Hokusai, Carl André, Ilya Kabakov (che Martin è stato tra i primi a scoprire), Man Ray, Giacometti e Rembrandt o Francis Boucher (o uno splendido amuleto egizio, con due dita della mano).

La rassegna è un invito a una lunga passeggiata in una Wunderkammer, in una collezione speciale, con riferimenti alle associazioni surrealiste, al Mur de l’Atelier di André Breton, al Musée imaginaire di Malraux o anche ai Musées sentimentaux di Daniel Spoerri (il primo di questi «musei» fu presentato al Pompidou nel 1977), che è tra gli artisti presenti al Grand Palais. Alla base c’è una concezione transculturale dell’arte e una volontà di presentare le opere come lo farebbe un collezionista.

La mostra si inserisce in un filone attuale di successo, che ha visto già varie esposizioni di raccolte di collezionisti (alla Maison Rouge, per esempio, per quanto riguarda la collezione di Antoine de Galbert). Nel 2013, Jean-Hubert Martin, in occasione della mostra Théâtre du Monde (Museum of Old and New Art, Tasmania, poi alla Maison Rouge a Parigi) aveva spiegato il suo approccio: «Il paradigma della contestualizzazione dell’opera nel museo è stata a lungo intoccabile. Postula che ogni opera nel museo deve essere mostrata accanto ad altre opere della stessa epoca e della stessa regione. L’obiettivo è doppio: immergere il visitatore in un ambiente armonioso che gli farà sentire l’atmosfera e la sensibilità di un’epoca e mostrargli che ogni capolavoro è parzialmente determinato dal contesto da cui proviene. Lo scopo è lodevole, ma vano. È impossibile resuscitare la sensibilità e l’atmosfera mentale e psichica di un’altra cultura o di un’epoca passata». Così, l’esposizione è frutto dell’era della mondializzazione che viviamo. «Alla luce della mondializzazione e del decadimento delle culture classica e cristiana – afferma Martin -, diventa necessario trovare una tassonomia che risponda alle attese di un pubblico che non è quello degli appassionati, ma che è anch’esso alla ricerca di esperienze estetiche. A condizione che queste si colleghino alla sua cultura e immaginario, forgiato dal cinema, dai fumetti, i media, Internet… Di qui l’idea di addizionare o di sostituire alle categorie tradizionali alcuni gruppi di opere che affrontano temi relativi alla società e alle domande del mondo attuale».

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L’approccio resta controverso. Nel passato, Jean-Hubert Martin aveva ricevuto critiche, per esempio per un’esperienza al Museum Kunst Palast di Düsseldorf nel 2001 (con opere del pittore Thomas Huber e dello scultore Bogomir Ecker). Anche Carambolages fa discutere e alcuni critici in Francia hanno espresso forti perplessità, soprattutto di fronte ai collegamenti tra le opere, considerati troppo fluttuanti. Per di più, Martin ha scelto di non mettere le didascalie sotto le opere, con i riferimenti di data, luogo e, eventualmente, autore. Questi dati, comunque, sono visibili sui monitor posti sui due muri perpendicolari alle gallerie parallele costruite nel grande spazio del Grand Palais. Non c’è audio-guida, ma giochi in linea e con un’app.